Omicidio dell'ultrà dell'Inter Vittorio Boiocchi: arrivano le confessioni

Sull'omicidio a colpi di pistola di Vittorio Boiocchi, leader storico degli ultrà interisti, rimasto un «cold case» per più di due anni, avevano fatto luce le parole, poi confermate da riscontri acquisiti, di Andrea Beretta, ex capo della Curva Nord, diventato collaboratore di giustizia dopo essere finito in carcere a settembre per aver ucciso Antonio Bellocco, rampollo del clan di 'ndrangheta e pure lui nel direttivo ultras. «Quell'uccisione del 2022 l'ho ordinata io», ha detto, tirandosi dietro altri cinque arresti di esecutori materiali e organizzatori, che per settimane, poi, sono rimasti zitti.
Ora anche quel muro di silenzio è crollato, di fronte al rischio di condanne all'ergastolo per omicidio aggravato pure dalla premeditazione e dalle modalità mafiose. Pietro Andrea Simoncini, uno dei due presunti esecutori materiali, difeso dall'avvocato Mirko Perlino, ha confessato ieri davanti al pubblico ministero (pm) della Divisione distrettuale antimafia (Dda) Paolo Storari nelle indagini della Squadra mobile della Polizia italiana.
Legato alla 'ndrangheta, ha confermato che era lui alla guida dello scooter e che a sparare, il 29 ottobre di tre anni fa sotto casa di Boiocchi, sarebbe stato Daniel D'Alessandro, detto «Bellebuono», bloccato in Bulgaria ed estradato in Italia, assistito dal legale Daniele Barelli. Erano caduti dal motorino poco prima e avevano invertito i ruoli, lui avrebbe anche cercato all'ultimo di fermare D'Alessandro, il quale per agire aveva tirato cocaina.
Prima di quella confessione, tra l'altro, ne era arrivata un'altra, quella di Marco Ferdico, difeso dall'avvocato Jacopo Cappetta. Ferdico, già arrestato anche lui nel maxi blitz sulle curve di San Siro di fine settembre, faceva parte del direttivo della Nord con Beretta e Bellocco. «Per quanto riguarda l'omicidio Boiocchi, non c'entra niente Antonio Bellocco (...) siamo stati noi a organizzare tutto. Praticamente quando è uscito Vittorio dalla carcerazione ...», era stato l'inizio, in uno dei verbali di novembre, della ricostruzione di Beretta.
Un agguato, preparato da settimane e che in teoria doveva essere realizzato un po' prima, inserito nel contesto di una «guerra» sulla gestione degli affari, tra cui il merchandising e altri business della curva. A Beretta, successore di Boiocchi, pesava il ruolo che quest'ultimo voleva mantenere, una volta tornato libero dopo una lunga carcerazione. Beretta ha ammesso di essere stato «il mandante», mentre l'esecuzione «sarebbe stata demandata» da lui, al prezzo di 50mila euro, a Marco Ferdico e al padre Gianfranco. Soldi pagati «per eliminare quello che era stato fino a quel momento il leader della Nord, per prendere il suo posto e dividere i profitti».
Sarebbe stato un altro ultrà interista, Mauro Nepi (indagato ma non arrestato) - pure lui già finito in carcere nel procedimento «doppia curva» nel quale a giugno arriveranno due sentenze - a suggerire a Beretta di rivolgersi ai Ferdico. E questi ultimi per il «progetto» si sarebbero rivolti a D'Alessandro (riconosciuto poi da un tatuaggio sotto l'occhio a forma di lacrima, «simbolo» dell'omicidio commesso) e Simoncini, già coinvolto in una faida di 'ndrangheta e salito apposta a Milano. Cristian Ferrario, altro ultrà, invece, si sarebbe intestato la moto che venne usata.
Questi due recenti verbali hanno certificato ruoli, responsabilità e dinamica. E la strada sembra spianata ora anche per le confessioni degli altri tre arrestati, dopo che tutti e cinque i destinatari, tirati in ballo da Beretta, della misura eseguita l'11 aprile, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere davanti alla giudice per le indagini preliminari (gip) Daniela Cardamone. Linea mutata, poi, nella prospettiva, di fronte alle prove, di portare a casa qualche attenuante nel processo.