Davos

Boris Collardi: «Economia globale, non sarà crollo»

Il managing partner Pictet indica le ragioni per cui il rallentamento non si trasformerà in caduta
Boris Collardi. (Foto Keystone)
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
25.01.2019 06:00

DAVOS - Boris Collardi è uno dei nomi noti nel settore bancario elvetico. Per oltre otto anni, dal 2009 al 2017, è stato chief executive officer di Julius Bär. Dal giugno del 2018 è managing partner di Pictet. Quando ha preso il timone di Julius Bär Collardi aveva 35 anni, è stato dunque uno dei più giovani CEO nel settore. L’annuncio delle sue dimissioni dalla banca zurighese, nel novembre del 2017, e il suo approdo alla ginevrina Pictet, hanno attirato l’attenzione degli operatori del settore, in Svizzera e all'estero. Collardi, classe 1974, svizzero con radici italiane, ha già accumulato un’ampia esperienza sia a livello nazionale che internazionale. È un frequentatore abituale del World economic forum di Davos e anche quest’anno lo abbiamo incontrato durante i lavori del Forum nella località grigionese. In questa intervista esclusiva al CdT, Boris Collardi parla della situazione economica internazionale, della piazza finanziaria svizzera, della strategia della banca Pictet.

Come valuta, per quello che ha potuto vedere e sentire sin qui, questa edizione 2019 del World economic forum di Davos?

«È chiaro che si fanno sentire le assenze del presidente Trump e della delegazione dell’Amministrazione USA, della premier britannica May, del presidente francese Macron, tutti impegnati in vario modo sui rispettivi fronti politici interni. È inevitabile avvertire queste assenze durante un Forum come questo, a cui partecipano ogni anno quasi tutti i maggiori leader mondiali della politica e dell’economia. Detto questo, bisogna però pure ricordare che anche quest’anno c’è un gran numero di importanti leader e che il confronto qui resta molto interessante».

A suo avviso quali sono i temi che ora prevalgono in questo confronto?

«Naturalmente ci sono i tempi più complessivi e più di lungo termine, come quelli degli sviluppi della globalizzazione e delle dinamiche della rivoluzione tecnologica in atto. Però ci si confronta anche su temi che riguardano questioni più immediate, in particolare per quel che concerne i capitoli degli equilibri politici mondiali e della crescita economica internazionale».

E su questi capitoli quale visione emerge maggiormente nelle discussioni di Davos?

«C’è abbastanza preoccupazione su quello che accadrà quest’anno. E gli elementi centrali di questa preoccupazione sono legati soprattutto alle tensioni politiche o geopolitiche. Prendiamo due dossier tra i principali, quello dei contrasti tra Stati Uniti e Cina e quello della Brexit. Si conferma la sensazione netta che nei contrasti tra Washington e Pechino ci siano sia aspetti economico-commerciali, sia aspetti politico-strategici. L’auspicio di molti è che non diventi una questione sostanzialmente di sicurezza nazionale e che ci sia quindi una soluzione pragmatica sui dazi, sui commerci, sui rapporti economici insomma. L’uscita del Regno Unito dall’Unione europea a sua volta si sta rivelando molto complicata e piena di potenziali conseguenze economiche per le parti coinvolte. Nessuno può dire ora cosa accadrà esattamente. Personalmente ritengo che un rinvio dell’uscita di qualche mese non servirebbe. Occorrono decisioni e le ipotesi più probabili ora secondo me sono una soft Brexit o una non Brexit; una hard Brexit mi sembra abbia poche possibilità».

C’è anche lo shutdown, lo scontro sui conti pubblici USA, che appunto non ha permesso a Trump e ministri USA di essere qui a Davos...

«Sì, c’è anche quello, ed è un’altra dimostrazione di come nel mondo ci sia una forte tendenza al tutto bianco o tutto nero, tra gli Stati ma anche all’interno degli Stati. È chiaro che negli USA alla fine troveranno un accordo, ma il percorso è più complicato che in passato. D’altronde più in generale si vede come sia più difficile che in altre fasi trovare intese, perché ci sono divisioni interne in molti Paesi, oppure perché ciascun Paese guarda più di prima a quello che pensa essere il suo interesse nazionale. È un discorso che riguarda un certo numero di Governi ma anche ovviamente i rispettivi elettorati di questi Governi».

In tutto questo, si andrà quindi verso un crollo, una caduta verticale dell’economia internazionale?

«Penso che non ci sarà un crollo. C’è e ci sarà un rallentamento economico, questo sì, ma non credo che si arriverà a una caduta verticale. I problemi ci sono, ma se si guarda alla realtà economica mondiale si vede anche quanta innovazione c’è, quante aziende hanno investito, quante dinamiche forti di sviluppo ci sono. Ci potranno essere ora posizioni di attesa, si potrà rallentare appunto, ma a mio avviso non ci sono i termini per un crollo. E poi, bisognerà rivedere il tutto tra qualche mese. Se USA e Cina ad esempio dovessero trovare un buon compromesso sui contrasti commerciali, se per la Brexit ci fosse una soluzione ragionevole, ebbene a quel punto già potremmo parlare di un quadro in buona parte molto meno preoccupante».

Veniamo alla piazza finanziaria svizzera. Ci sono ancora opinioni diverse: c’è chi critica e dice che ha ancora molti problemi e che non va bene, c’è invece chi dice che va bene. I suoi argomenti quali sono?

«La piazza finanziaria svizzera regge bene, questo è il primo punto. Ciò naturalmente non significa che non ci siano problemi. La piazza elvetica ha già affrontato molti problemi negli anni scorsi e ora ha ancora sfide da affrontare. La professionalità e l’affidabilità della piazza finanziaria svizzera comunque ci sono tutte e ciò si è visto anche attraverso la tenuta complessiva a livello di patrimoni gestiti. Tra le sfide aperte ci sono il controllo e la riduzione dei costi, il libero accesso ai mercati dei servizi finanziari, la gestione delle nuove tecnologie sia nell’organizzazione del lavoro interno che nel rapporto con la clientela. A proposito di tecnologie applicate al settore bancario e finanziario, occorre dire che non è soltanto questione di maggiore produttività, può e deve essere anche questione di maggiore qualità, sia per chi ci lavora che per i clienti. Naturalmente, questo nuovo impatto delle tecnologie richiede che si punti ancora di più sulla formazione professionale, anche questo è un aspetto importante della sfida».

Quali sono i punti principali della strategia attuale della banca Pictet?

«Pictet è una banca che ha una lunga storia nella gestione di patrimoni. La sua strategia che sta attuando è già stata definita a suo tempo e viene aggiornata lungo una direzione di marcia stabilita. Io sono arrivato a Pictet da non molto e posso per ora solo richiamare alcuni elementi di fondo, che caratterizzano la banca. I settori di attività di Pictet sono tre: wealth management, asset management e asset servicing. L’idea è quella di continuare a crescere in modo organico, cioè continuare ad ampliare le strutture di cui già disponiamo. Si guarda in sostanza a una crescita per linee interne, quindi Pictet continua a non pensare ad acquisizioni di altre banche o strutture. Si guarda semmai, per così dire, ad acquisizioni di persone, per aumentare ancor più il livello di professionalità e la competitività della banca».