«Ci scusiamo per il dolore che gli abbiamo provocato»

Massimo rispetto e solidarietà per la vittima, ma condannare gli imputati a pene fra i sei e gli undici anni di prigione richiederebbe prove che in questo caso mancano. Questa tesi, ieri in aula penale, è stata il denominatore comune delle arringhe a difesa dei sei ragazzi che lo scorso inverno, in momenti e con ruoli diversi, hanno messo in atto una serie di violenze fisiche e psicologiche ai danni di un diciottenne che non aveva pagato dei debiti. Gli accusati, che hanno fra i ventuno e i trentatré anni, devono rispondere a vario titolo di diversi reati, fra cui tentato omicidio intenzionale, sequestro di persona, esposizione a pericolo della vita altrui e omissione di soccorso. La lettura della sentenza da parte del giudice Amos Pagnamenta è prevista per domani pomeriggio.
Fu tentato omicidio?
Gli sforzi dei difensori (gli avvocati Yasar Ravi, Mattia Cogliati, Barbara Pezzati, Stefano Camponovo, Felice Dafond e Sabrina Aldi, che si era espressa nel primo giorno del dibattimento) hanno cercato soprattutto di smontare la tesi accusatoria del tentato omicidio intenzionale sostenuta dalla procuratrice pubblica Valentina Tuoni. «Il referto del medico legale - ha osservato Camponovo - permette di concludere che nessuno ha messo realmente a rischio la vita della vittima: per farlo sarebbe servita una forza tale da lasciare segni, esterni e interni, più incisivi di quelli riscontrati». «Oggettivamente - ha affermato Cogliati - la vittima non è mai stata in pericolo di morte e non ha avuto conseguenze fisiche sul lungo termine». Le conseguenze psicologiche invece le soffre ancora oggi, come sottolineato nella prima udienza dall’avvocato della parte lesa, Sandra Xavier.
Chi ha fatto cosa
Un altro argomento ricorrente nelle arringhe è stato la critica alla procuratrice di aver fatto «di tutta l’erba un fascio» addossando le imputazioni principali a più persone. «Per certi reati l’accusatore ha messo tutti sullo stesso livello - ha fatto notare Dafond - ma così non è stato. Il mio assistito ha solo tentato di dare due sberle e la vittima, parlando di lui, ha dichiarato: ‘non mi ha fatto tanto male, anzi ha cercato di aiutarmi: mi dispiace che sia in carcere’. Lui ha sicuramente sbagliato a non cercare d’impedire quello che è successo, ma aveva paura di subire lo stesso trattamento». «Il mio cliente - ha detto l’avvocato Pezzati - non ha compiuto né incitato diversi degli episodi contenuti nell’atto d’accusa. Anzi, ha allontanato la spranga con cui è stato colpito il diciottenne e si è opposto quando un altro componente del gruppo voleva investirlo con l’auto. Non voleva di certo la sua morte. È stato un gregario durante il recupero di un credito». L’avvocato Cogliati rappresentava invece l’imputato con cui la vittima aveva il debito maggiore (duemila franchi, diventati settemila con gli interessi) e che aveva coinvolto gli altri accusati nella spedizione punitiva. «Ma è sbagliato dire che era il regista dell’operazione - ha argomentato il patrocinatore -. È stato piuttosto la scintilla. Poi il fuoco si è sviluppato e lui non aveva più il controllo. Ha dato un calcio in testa alla vittima solo perché è scivolato: non voleva colpirlo in un punto sensibile. E in altre occasioni è stato lui a frenare i suoi compagni».
Domande e risposte
Un altro aspetto contestato dai legali è stata la scarsa collaborazione che gli imputati, a mente della procuratrice Tuoni, avrebbero mostrato durante l’inchiesta. «Il mio assistito - ha chiarito Ravi - si è assunto le sue responsabilità e lo ha fatto sin da subito, dando un contributo importante nella ricostruzione dei fatti». «E se la ricostruzione contenuta nell’atto d’accusa ha potuto essere così precisa, come fosse la cronaca minuto per minuto di una partita - ha rimarcato Camponovo - un po’ di merito ce l’avranno anche gli imputati». I fatti sono stati sostanzialmente ammessi e durante il processo gli accusati hanno risposto senza molti giri di parole alle domande del giudice Pagnamenta. Un interrogativo frequente era: «La vittima aveva la possibilità di andarsene?». La risposta, da parte di tutti, è sempre stata la stessa: «No».
Vogliono risarcirlo
Le ultime parole del processo, prima che la Corte esprima il suo giudizio, le hanno dette gli imputati. Tutti si sono scusati con la vittima e la sua famiglia. «Ho visto la sofferenza che ho causato alla mia di famiglia - ha raccontato uno dei ragazzi -, possono solo immaginare quella che ha patito la sua: le scuse non sono abbastanza». Una sensazione condivisa anche da altri giovani alla sbarra. «Scusarsi ora è troppo facile... Voglio chiedere perdono con tutta la mia anima per il dolore che ho causato». «Mi vergogno - ha aggiunto un altro ragazzo -, vorrei rimettere in piedi la mia vita e risarcire la vittima». «Anche io vorrei farlo: mi sento un mostro per quello che ho fatto».