Dall’invito al dialogo del presidente ai tanti «scandali» della legislatura

La sessione parlamentare di novembre si è aperta oggi a Palazzo delle Orsoline con un accorato appello del presidente del Gran Consiglio Fabio Schnellmann, il quale ha voluto esporre una «riflessione personale» per la metà del suo mandato come primo cittadino del Cantone: «All’inizio dell’anno presidenziale - ha ricordato Schnellmann - avevo espresso due desideri: anteporre l’interesse del Ticino e dei ticinesi agli interessi di partito o dei singoli; ricucire il legame fra il Parlamento e il Governo». Ebbene, ha aggiunto il presidente, «l’obiettivo non è ancora stato raggiunto e ciò mi dispiace. Girando il cantone, posso dirvi che alla gente non frega niente delle nostre beghe interne. È preoccupata per i temi che tutti conosciamo, dalle casse malati, alle finanze cantonali al lavoro. Spero che negli ultimi sei mesi (ndr. della sua presidenza) possiamo ricompattarci per rilanciare al meglio questo fine di legislatura». L’invito del primo cittadino, però, in maniera un po’ paradossale non è durato nemmeno il tempo di un caffè. E buona parte degli «scandali» e dei «casi» che hanno contraddistinto questa legislatura hanno fatto capolino nell’aula del Parlamento nel giro di pochi minuti.
Duello tra Pronzini e Mazzoleni
A dare il via alle danze, ancor prima di iniziare i lavori parlamentari, è stato il deputato dell’MpS Matteo Pronzini che - sfruttando una richiesta di sospensione della seduta (poi ritirata) per poter prendere la parola - ha voluto porre alcune domande al suo omologo della Lega, Alessandro Mazzoleni. Domande che, appunto, riguardavano il cosiddetto «caso Hospita», con un accenno anche alla recente indagine aperta nei confronti del presidente del Centro, Fiorenzo Dadò. Dopo aver espresso «solidarietà» a quest’ultimo, «che ha fatto bene a mentire per non rivelare una fonte» (su questo tema torneremo più tardi), Pronzini ha chiesto a Mazzoleni «perché non ha dato le dimissioni dalla Commissione, visto che ha mentito anche lei (ndr. sul famoso rapporto ‘segreto’ commissionato dai vertici leghisti)» e «perché la sua commissione (ndr. Mazzoleni è presidente della Giustizia e diritti), a esplicita richiesta (ndr. di collaborazione) della Sottocommissione che si è occupata della vicenda, non ha ancora risposto» e, infine, «perché lei ha rifiutato di essere sentito dalla Sottocommissione». Mazzoleni, che non sarebbe stato tenuto a rispondere, ha comunque voluto prendere la parola e precisare alcuni aspetti a titolo personale (non a nome della Commissione). In primis, per ricordare che lui e la collega Cristina Maderni, per motivi di opportunità politica, hanno lasciato trattare la questione dell’alta vigilanza al collega del PS Ivo Durisch (secondo vice-presidente del gremio). Sul rapporto, Mazzoleni ha invece tenuto a ribadire che esso «non era segreto, ma confidenziale», poiché «conteneva informazioni su fonti che abbiamo ritenuto di tutelare, alla stregua di quanto fa valere Dadò». Ma anche che di «segreto non c’era nulla», perché la raccolta di informazioni non è mai stata nascosta agli interessati. Senza dimenticare, ha aggiunto Mazzoleni, che le informazioni «non concernono direttamente l’attività parlamentare, bensì un’associazione», ossia la Lega. E che «un procedimento penale è ancora in corso».
Calibrazioni nel mirino
Dopo un paio di crediti d’investimento approvati dal plenum, dagli addentellati politici del «caso Hospita» si è passati a quelli «etilometrici» dell’incidente della circolazione che ha visto coinvolto Norman Gobbi e il relativo processo dei due agenti, nel frattempo prosciolti (in Pretura penale) dalle accuse. E questo perché il neo-responsabile politico della Polizia (per effetto del cosiddetto «arrocchino», tanto per citare un altro caso), Claudio Zali, ha risposto alle interpellanze dell’MpS e del Centro sulla vicenda riguardante gli etilometri con calibrazione scaduta. Ebbene, Zali ha chiarito - in una lunga risposta tecnica - che si è trattato di «un non-problema» e che, in ogni caso, «non è stata violata alcuna formalità». Riassumendo, la novità spiegata in aula da Zali riguarda le tempistiche delle calibrazioni: secondo la legge e le relative ordinanze va effettuata due volte all’anno (e ciò è sempre stato fatto), mentre secondo il manuale dell’apparecchio andrebbe fatta ogni sei mesi. E siccome «nel 2023 la seconda regolazione è stata posticipata di qualche mese», su alcuni etilometri la cui calibrazione era più vecchia di sei mesi è apparsa la famosa scritta «calibrazione scaduta». Ma, appunto, solo perché non è stata effettuata entro i sei mesi, che non è un requisito per le ordinanze che regolano questi aspetti. Detto altrimenti, come affermato da Zali: erano «gravati da un problema formale», ma ciò «non equivale ad ammettere che fossero difettosi o malfunzionanti». Detto ciò, in aula è pure stato chiarito che non è possibile sapere, a questo punto, quanti apparecchi avessero questo problema formale e quanti cittadini siano stati controllati con tali strumenti. Zali ha poi tenuto a rilevare che, anche nel peggiore dei casi (ossia di una calibrazione che abbia portato a risultati alcolemici superiori all’effettivo), le conseguenze per gli automobilisti non sarebbero state troppo gravi: una multa o una procedura amministrativa con un ammonimento. Ad altre domande presenti nelle interpellanze il Consiglio di Stato non ha invece potuto rispondere poiché il procedimento penale è ancora in corso (il procuratore generale ha annunciato l’appello). Motivo per cui sia Dadò che Sergi hanno sottolineato l’importanza di poter ricevere in futuro le risposte a quelle domande.
La protezione delle fonti
Sempre oggi, c’è infine stato spazio (questa volta, però, non in aula) anche per gli strascichi del «caos al TPC», in particolare dopo l’apertura di un procedimento penale a carico di Dadò (le ipotesi di reato sono falsa testimonianza e denuncia mendace). La vicenda ha infatti riaperto la discussione attorno alla possibilità – per un deputato – di non rivelare le proprie fonti dinanzi alle autorità, sulla falsariga di quanto avviene per i giornalisti. E proprio oggi, appunto, con un’iniziativa parlamentare l’MpS ha proposto che venga precisata nella Legge sul Gran Consiglio la facoltà per i parlamentari di non deporre di fronte alle autorità. «Questa fattispecie - scrivono Pronzini e Sergi nell’iniziativa - ha messo in luce un aspetto fondamentale. Un deputato, se interpellato in merito dall’autorità penale, si vede obbligato a comunicare le proprie fonti. Se così è, il ruolo di vigilanza sulle istituzioni di ogni singolo parlamentare viene di molto affievolito».

