È iniziato il processo per il presunto maxi contrabbando di sette tonnellate d'oro

È approdato in aula penale uno dei casi di contrabbando d’oro più eclatanti degli ultimi decenni in Ticino. O, meglio, presunto contrabbando, in quanto l’imputato - un 66.enne italiano residente in Italia - si batte per la propria innocenza. È alla sbarra per rispondere del commercio, tra il 2016 e il 2021, di oltre sette tonnellate d’oro attraverso tre società di Lugano, Chiasso e Roveredo Grigioni, che sarebbero poi finite in Germania (via Liechtenstein). Il tutto senza aver pagato l’imposta sull’importazione, che ammonterebbe in tutto a quasi 22 milioni di franchi, dato un valore totale del metallo prezioso commerciato pari a circa 278 milioni di franchi. Oro che a mente degli inquirenti è proveniente dall’Italia, mentre l’imputato sostiene che provenga dalla Svizzera. L’inchiesta è stata condotta dall’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini(UDSC) e sottostà al diritto penale amministrativo. L’UDSC, per bocca della giurista Laura Peci, ha chiesto che il 66.enne, difeso dall’avvocato Filippo Ferrari, venga condannato a due anni di carcere da scontare, a una pena pecuniaria, a una maxi multa di 600.000 franchi e all'espulsione per "almeno dieci anni" dalla Svizzera. La sentenza della Corte delle assise correzionali presieduta dal giudice Amos Pagnamenta è attesa nei prossimi giorni.
Come la vede l'accusa...
A mente dell’accusa il 66.enne, che in Italia ha un precedente specifico e un’inchiesta aperta per simili comportamenti, rivestiva un ruolo apicale in un’organizzazione criminale atta a contrabbandare oro italiano in Ticino, dove veniva raffinato e poi rivenduto, in parte in Germania, nazione in cui un suo presunto correo è stato condannato di recente a sei anni e mezzo di carcere. Il 66.enne si sarebbe in particolare occupato di dare quantomeno verosimiglianza alla provenienza dell’oro in modo da giustificarlo agli occhi della fonderia di Mendrisio a cui si rivolgeva, anche tramite documentazione fittizia, intestando il metallo a persone ignare, tant’è che 17 di loro hanno sporto denuncia in Italia per furto d’identità quando hanno saputo della cosa. Nel perquisire i locali a lui in uso, l’UDSC ha rivenuto tra l’altro un passaporto russo, 11 carte d’identità italiane, e 39 telefoni cellulari, oltre a 650.000 euro in contanti nascosti in un divano e in un camino, e un hard disk denominato «Cervello» in cui vi era quella che è stata definita la «contabilità occulta» di una delle tre società. Sempre a proposito di occultamento, l’accusa ritiene che l’uomo avesse creato dei ricettacoli (quelli che si vedono nella foto) nella propria vettura per trasportare l’oro in dogana senza essere intercettato. Lui ha per contro affermato che lo celava lì per portarlo in raffineria, per la propria sicurezza. «Ha fatto del crimine fiscale un metodo imprenditoriale», ha detto Peci. La giurista, nel cercare di dimostrare la provenienza italiana dell’oro, ha anche fatto notare che in media un «compro oro» in Svizzera acquista ogni giorno 0,04 chili d’oro. Le società dell’imputato viaggiavano invece sugli 1,8 chili al giorno: «Il 4.000% in più: un volume completamente incompatibile con il mercato svizzero».
...e come la difesa
Per contro, l’avvocato Ferrari ha contestato l’ipotesi di reato di truffa in materia di prestazioni e di tasse, sostenendo che non fosse sufficientemente provata. Che non vi fosse cioè la ragionevole certezza che parte o tutto l’oro venisse effettivamente dall’Italia, che fosse stato l’imputato a portarlo in Svizzera, e che in ogni caso vi sia stata una truffa ai danni dello Stato. Sia perché se nessuno ha mai chiesto in dogana se ci fosse qualcosa da dichiarare, non si può parlare di inganno astuto; sia perché in ogni caso l’oro commerciato sarebbe del tipo esente da IVA (ipotesi contestata dall’accusa), e dunque non vi sarebbe alcun danno allo Stato. Quanto alle procedure opache e a contanti, sarebbero semmai servite a tutelare chi gli consegnava l’oro, comportamento che però non gli è imputato nell’atto d’accusa. Ferrari ha inoltre ricordato come tutti i suoi presunti correi siano stati raggiunti da decreti d’abbandono perché «i fondati sospetti non hanno trovato riscontro dal punto di vista penale», come peraltro già successo nel precedente italiano, dove peraltro il 66.enne avrebbe patteggiato, riconoscendo la pena ma non il reato, solo per lasciare il carcere.


