Mercato del lavoro

Frontalieri, un trend che dura da vent'anni

Tra il 2002 e il 2022 lavoratori con il permesso G attivi nel secondario sono passati da 17.905 a 25.005 (+7.100), mentre quelli attivi nel terziario da 14.427 a 51.999 (+37.572) - L'analisi di due esperti
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Paolo Gianinazzi
04.11.2022 06:00

Il trend lo conosciamo tutti. Tra qualche «basso» e molti «alti», il numero dei frontalieri in Ticino è in crescita costante. Una tendenza confermata anche dagli ultimi dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica (UST) per il terzo trimestre del 2022. La quota raggiunta a fine settembre, in termini assoluti, è di 77.732 lavoratori con il permesso «G». Un (nuovo) record assoluto.

Sul lungo periodo

Al di là dei dettagli legati alle ultime cifre statistiche, però, è guardando agli ultimi 10 o 20 anni che si possono intravvedere le tendenze che hanno contribuito a questa importante crescita. Uno su tutti: l’aumento dei frontalieri nel settore terziario. Cifre alla mano, tra il 2002 e il 2022 (confrontando i dati del terzo trimestre) i frontalieri attivi nel secondario sono passati da 17.905 a 25.005 (+7.100), mentre quelli attivi nel terziario da 14.427 a 51.999 (+37.572). Un cambiamento che, in soldoni, ha fatto sì che oggi in Ticino due frontalieri su tre (più precisamente il 66,9%) lavorano proprio nel settore terziario.

Un trend che però, ci spiega Ornella Larenza, ricercatrice del Centro competenze lavoro, welfare e società della SUPSI, si spiega in parte con le caratteristiche dell’evoluzione del mercato del lavoro ticinese: «L’aumento più evidente, ossia nel terziario, è legato pure al semplice fatto che l’economia ticinese è anch’essa sempre più fortemente terziarizzata. La probabilità che i frontalieri si inseriscano in quel settore è quindi più elevata», rileva Larenza. Un aspetto sottolineato pure dal direttore dell’Istituto di ricerche economiche (IRE) dell’USI, Marco Jametti: «Abbiamo una struttura economica focalizzata sul terziario. E questo spiega in gran parte questa tendenza». Anche se, aggiunge Jametti, «andando più nel dettaglio osserviamo che pure all’interno del settore terziario la situazione è parecchio eterogenea: in settori altamente specializzati, come ad esempio l’informatica, l’aumento è stato al di sopra della media. Al contrario, in altri settori meno specializzati, come il commercio, la crescita è stata meno marcata».

A questo punto, poi, va evidenziato un altro aspetto nella lettura di questi dati. «Perlomeno negli ultimi 10 anni abbiamo registrato pure una crescita dell’occupazione», rileva Larenza. In cifre, aggiunge Jametti, «negli ultimi dieci anni l’occupazione è aumentata del 12,8%, con circa 27 mila posti di lavoro in più. Nello stesso periodo, il frontalierato è aumentato del 35,8%, che equivale a circa 20 mila posti di lavoro». Per il direttore dell’IRE, dunque, «la spinta principale dell’aumento dei frontalieri è da ricercare nell’aumento dell’attività economica in Ticino».

Ad aumentare in questi 10 anni, di conseguenza, è stata pure la quota-parte della forza lavoro straniera. «Suddividendo l’occupazione tra svizzeri e stranieri – aggiunge la ricercatrice della SUPSI – notiamo che negli ultimi 10 anni in percentuale la quota di lavoratori svizzeri si è ridotta, passando dal 55% al 48% del totale, mentre la quota degli stranieri è passata dal 45% a 52%. E all’interno della forza lavoro straniera, la quota dei frontalieri è quella preponderante (oggi al 31% del totale) e dà un contributo decisivo alla crescita di quest’ultima».

Ma quindi il ‘‘famoso’’ effetto di sostituzione è reale? chiediamo a Larenza. La risposta a questa domanda, precisa sin da subito la ricercatrice, «è molto complessa e non va in una sola direzione»: «Spesso si fa riferimento al differenziale salariale tra residenti e frontalieri, che sicuramente è un incentivo all’assunzione di questi ultimi. Magari anche per qualche azienda che vuole approfittarne. Ma non è l’unico fattore a contribuire al fenomeno. C’è anche una reale difficoltà a reperire nel nostro territorio determinate figure professionali molto specializzate». Ad esempio, aggiunge l’esperta, «si pensi al settore delle professioni scientifiche e tecniche, che ha registrato un aumento di frontalieri, negli ultimi 10 anni, del 154,7%. Ecco, in questo caso, in cui le competenze richieste sono molto specifiche, è fondamentale per le aziende poter estendere le ricerche di personale al bacino lombardo e piemontese». Insomma, «come dimostrano le nostre ricerche, i settori che necessitano di molti professionisti con un alto livello di competenze e specializzazione, affrontano le maggiori difficoltà di reperimento nel ‘piccolo’ bacino ticinese. Basti pensare al settore della sanità: durante la pandemia è emerso chiaramente che senza la manodopera straniera il sistema non avrebbe retto».

Ma fino a quando – chiediamo infine a Jametti – possiamo attenderci un aumento dei frontalieri? «Sul corto termine le prospettive economiche negative potrebbero rappresentare un freno alla creazione di nuovi posti di lavoro, e quindi, potenzialmente, anche all’arrivo di nuovi frontalieri. Sul lungo termine, invece, se il Ticino vorrà mantenere o aumentare l’attuale numero di posti di lavoro, a fronte dell’invecchiamento della popolazione e dei flussi migratori stagnanti, va tenuto conto che, da qualche parte, quei posti di lavoro andranno trovati...».

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