L'intervista

«Le ultime battaglie della mia vita, tra giustizia e verità irriverenti»

Dick Marty, già consigliere agli Stati e parlamentare del Consiglio d'Europa, ha vissuto molte vite e tante battaglie – L'ultima l'ha visto passare quasi due anni sotto scorta
© LAURENT GILLIERON
Paolo Gianinazzi
07.11.2023 06:00

Procuratore generale, consigliere di Stato e agli Stati, parlamentare del Consiglio d’Europa, Dick Marty ha vissuto molte vite e tante battaglie. L’ultima (sarebbe meglio dire la penultima), l’ha visto passare quasi due anni «sotto scorta», finito nel mirino di pericolosi ambienti dei Balcani. Un periodo non facile, che ha raccontato in un libro da cui è nata l’intervista che segue.

È il 29 novembre 2020. In piena pandemia. L’iniziativa «per imprese responsabili» è approvata dal popolo ma affossata dai Cantoni. Doveva essere la sua ultima battaglia politica prima di dedicarsi alla pensione. Ma 18 giorni dopo la sua vita è nuovamente sconvolta. Che cosa accadde?
«È arrivata questa famosa telefonata del comandante della Polizia cantonale. Pensai a uno scherzo. Disse che la mia vita era in pericolo e che avrei dovuto essere messo sotto scorta. Ho quindi capito, abbastanza in fretta, che non si trattava di uno scherzo. Gli feci una sola domanda: “Balcani?”. Lui mi rispose: “Affermativo”. È così cominciata la sorveglianza di massimo grado, durata circa 16 mesi».

Che cosa le ha permesso di scoprire di sé stesso questo momento? Non succede a tutti di essere messi sotto scorta.
«Ero già stato sotto sorveglianza nel 2010, con una scorta ben più blanda. E ho parecchi amici italiani che hanno vissuto anni sotto scorta. Ma la differenza è che loro erano maestri dell’inchiesta. Erano al fronte. Io, invece, questa volta sono stato un oggetto protetto, ricevendo dagli inquirenti solo informazioni assolutamente incomplete o non veritiere».

Si è sentito inerme? Per tutta la vita ha portato avanti inchieste, ma qui non ha potuto fare nulla.
«A logorarmi non è stata la paura. Con la sorveglianza che c’era, penso non ci fosse nessun motivo di aver timore. Ciò che mi ha logorato è stata l’inchiesta delle autorità inquirenti, che si trascinava e veniva rimandata, con promesse continue che si sarebbe fatto qualcosa. Le basti pensare che la prima volta che gli agenti si sono degnati di andare in Serbia – quando già tutti gli elementi per farlo erano dati sin dal 2020 – è stato sedici mesi dopo avermi messo sotto scorta. Una cosa inaudita. Ed è questo che mi ha logorato».

Questo episodio è stato però anche una buona occasione per riflettere sul nostro presente.
«Mi sono trovato ad avere molto tempo per me stesso, accorgendomi che il modo di fare politica, specialmente oggi, è totalmente assurdo. Quando si vede il tempo che i politici impiegano nella comunicazione, nel correre da una seduta all’altra, vien subito da dire che non c’è più lo spazio per la riflessione. È uno dei grossi problemi della politica. Quando si pensa alle sfide epocali che ci aspettano, bisognerebbe avere molto più tempo per una riflessione comune, per avere una visione, per sviluppare politiche organiche che non mirano al giornale della domenica dopo, o alle prossime elezioni, ma che ci permettano di immaginare la nostra società nel 2050».

A proposito di grandi sfide, lei tratta anche il tema della nostra democrazia. Sempre più in difficoltà.
«È ammalata. O, se non ammalata, perlomeno non gode di ottima salute. Non vorrei fare il saccente, ma se guardiamo alla campagna elettorale delle elezioni federali, mi sembra di poter dire che sia stata di una pochezza disarmante. E malgrado si trattasse di un’elezione importante, in cui sono stati eletti coloro che definiranno la politica dei prossimi anni, nemmeno la metà della popolazione è andata a votare. Questo è il sintomo di un male. Ho l’impressione che la popolazione vada a votare quando ha un suo interesse immediato. Allora una volta sono i cacciatori a farlo, un’altra volta i contadini, e così via. Mentre gli altri se ne fregano. Ma questa non è democrazia. La democrazia è partecipazione corale, discussione, riflessione comune e scambio d’idee. Ho l’impressione che questo non funzioni più».

Abbiamo bisogno di partigiani della democrazia. Di persone che si impegnano. Che trascinano. Che creano discussione e non si limitano a messaggi di tre o quattro parole sui social

La partecipazione cala. E lei si dice preoccupato degli «indifferenti», arrivando a citare Gramsci, che «odiava gli indifferenti». Ho trovato molto divertente il fatto che la suoneria del suo cellulare, come racconta nel libro, sia il «Chant des partisans». In questo mondo fatto d’indifferenza servono più partigiani?
«Abbiamo bisogno di partigiani della democrazia. Di persone che si impegnano. Che trascinano. Che creano discussione e non si limitano a messaggi di tre o quattro parole sui social. Social che, talvolta, mi sembrano diventati cloache a cielo aperto. Ci sarebbe bisogno di un confronto sano, sulla base di una discussione seria. Ma oggi chi la spara più grossa è colui che rischia di raccogliere il maggior numero di applausi. È preoccupante. Abbiamo tante persone capaci che non si impegnano più in politica perché non si sentono di partecipare a questo circo di battutacce, di passare ore sui social. Ho l’impressione che a queste persone oggi non si dia più spazio. Ma non solo da noi. Basta guardare gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e varie altre democrazie in Europa. Stiamo assistendo a uno sconvolgimento enorme di cui non stiamo prendendo la misura esatta: un mondo in cui gli equilibri stanno profondamente cambiando senza che ce ne rendiamo conto. Le democrazie occidentali si indeboliscono, l’Occidente non è più in grado di difendere con vera coerenza i propri valori, che sono valori meritevoli, mentre il resto del mondo si accorge che non necessariamente ci vuole la democrazia per ottenere il progresso e il benessere. Questo morbo sta prendendo piede anche da noi, con sistemi liberali ma autocratici. Ma tutto ciò, la storia lo ha dimostrato, porta sempre alle sciagure».

In questo discorso rientra un altro tema da lei affrontato nel libro: la verità. Mi ha fatto venire in mente una citazione di un’altra persona sotto scorta da anni, Roberto Saviano, che dice: «Verità e potere non coincidono mai». È proprio così? In politica oggi c’è una tendenza alla menzogna e alla mezza verità?
«Mi piace citare una vecchissima sentenza della Corte di Cassazione italiana, che disse: ‘Le mezze verità sono le peggiori menzogne’. Questo è vero perché, essendoci un pezzettino di verità, esso rende veritiera pure tutta la parte di menzogna. Oggi il potere ha tendenza a soffocare molte verità nel nome di sedicenti interessi superiori. Anche nella mia vicenda mi sembra evidente che l’inattività dell’autorità inquirente sia stata dettata da interessi politici, per non infocare ulteriormente le relazioni tra Serbia e Kosovo. A farne le spese sono stato io».

Nel libro ricorda di essere stato uno «scassamarroni», un «granello di sabbia che tanto può dare fastidio». Di riflesso critica quei politici che non sono pronti a essere impopolari. Nell’era del populismo c’è troppa smania di piacere a tutti?
«Ciò che è grave è che ci sono politici sufficientemente intelligenti per sapere che stanno raccontando delle storie. E lo fanno perché sanno che la maggioranza di chi ascolta vuol sentire quella storia. Dunque: intelligenti sì, ma anche cinici e perversi. Oggi, invece, abbiamo bisogno di persone che dicano chiaramente quali siano i problemi e quanto gravi siano questi problemi. Come hanno sempre fatto i grandi capi di Stato. Voler sistematicamente dire quello che la platea vuole applaudire è una perversione totale della politica e una minaccia per la democrazia».

Restiamo sulla politica. Lei si dice a favore dell’adesione all’UE e alla cassa malati unica, si schiera contro certe multinazionali e critica il capitalismo sfrenato. Beh... se dovessi dire a un giovane d’oggi che lei appartiene al PLR si metterebbe a ridere? Dove sono finiti i Radicali? Oppure - mi permetta una provocazione - è forse lei che doveva stare nel PS?
«No, non credo. Attraverso la mia esperienza, viaggiando nel mondo, in Africa e in America del Sud, vedendo che cosa facevano le multinazionali, gli abusi e il saccheggio delle risorse, ho capito che ciò non c’entra con il fatto di essere socialisti o radicali. Significa essere uomo. Una persona responsabile, che sente empatia per l’altro. Sono comunque tendenzialmente contrario a tutte le forme di dogmatismo. Tante volte il rimprovero che faccio alla sinistra riguarda proprio la sua rigidità dogmatica. Io sono molto più libero da certi schemi prefissati. Ma anche il PLR è cambiato notevolissimevolmente. Una volta in Ticino il PLR era un partito popolare, con una ben definita sensibilità sociale, chiaramente interclassista. Tutte cose che oggi non ci sono più».

Nel libro parla anche della crescente sfiducia nelle istituzioni. Un tema che riguarda la politica, ma anche il giornalismo. Come recuperare il rapporto che si sta incrinando?
«È uno dei segni della malattia della nostra democrazia. In parte perché la stampa è sempre meno libera perché proprietà di interessi economici. E anche se c’è una Carta che garantisce la libertà del giornalista, non va dimenticata la censura più insidiosa: l’autocensura. E c’è sempre meno giornalismo d’inchiesta perché si tagliano posti ovunque. Questo è preoccupante perché per finire la gente non crede più a nulla. Anzi, magari finisce per credere alle teorie del complotto. Oggi viviamo in un mondo sempre più complesso e di fronte a questa complessità molti si sentono disorientati. E quando qualcuno ti sciorina una soluzione semplice, ti aggrappi a questa, perché ti tranquillizza».

Il primo intento è stato di scrivere per me stesso. Poi ho pensato che condividere certe esperienze poteva essere utile, come semplice testimonianza, senza ergermi a un monito. Ogni cittadino che è testimone di qualcosa che interessa il bene pubblico ha un certo dovere di testimoniare

Veniamo alla conclusione. C’è un messaggio in particolare che ha voluto mandare con questo libro?
«Non so se il mio voleva essere un messaggio. Il primo intento è stato di scrivere per me stesso. Poi ho pensato che condividere certe esperienze poteva essere utile, come semplice testimonianza, senza ergermi a un monito. Ogni cittadino che è testimone di qualcosa che interessa il bene pubblico ha un certo dovere di testimoniare. Anche per far vedere da che parte sta. L’ho sempre fatto senza fare calcoli. L’ho anche pagato. Ma è qualcosa che mi ha fatto stare meglio. Non l’avessi fatto non potrei guardarmi nello specchio».

Dopo tante battaglie, alcune vinte e alcune no, ora - lei dice nel libro - dovrà affrontare un’ultima battaglia che non potrà vincere. Non vorrei essere indelicato, ma le chiedo come sta e con quale spirito affronta questa fase?
«Sì, è la battaglia che non si può vincere. Di questo sono cosciente. Anche perché presiedo da anni una fondazione sulla ricerca e so perfettamente a che punto mi trovo. Ma sa, certe cose quando accadono alla mia età non sono uno scandalo. È uno scandalo se succede ai giovani. Però è vero che quando il tempo che ti rimane è più che contato, cambia la prospettiva, ti mette in una situazione particolare. Allo stesso tempo, ti permette anche di apprezzare meglio ogni giorno, di andare a spasso e contemplare un albero, magari chiedendoti “Chissa se lo vedrò ancora..”. Quell’albero lo vedi con altri occhi e con un’altra intensità. Per una volta non sono io il regista della strategia di difesa. Ma cerco di essere animato dagli stessi sentimenti di sempre: non lasciarmi andare, combattere e resistere per quanto possibile. E poi le cose vanno come devono andare...».

Un magistrato ticinese. Un’inchiesta negata. Una vita sotto scorta. Le riflessioni di Dick Marty sono «Verità irriverenti» sullo stato della democrazia, sulla neutralità e sull’inchiesta che l’ha reso il bersaglio di un nemico senza nome. Il suo ultimo libro (pubblicato da Edizioni Casagrande) è in libreria da oggi e sarà presentato al pubblico martedì 14 novembre alle 18.00 nella hall del LAC Lugano Arte Cultura. Con Dick Marty, dialogherà il giornalista Roberto Antonini.