Riaffiora il castello dimenticato

TAVERNE - Era il 1517. Un anno e mezzo prima i confederati vennero pesantemente sconfitti a Marignano e dovettero rinunciare al controllo di Milano. Con il trattato di Friburgo agli svizzeri venne riconosciuto il definitivo dominio sul Sottoceneri, ma il contesto politico europeo restava instabile e proprio nel 1517 i confederati – mai maestri nell'arte dell'assedio – decisero di dare avvio a una campagna di smantellamento delle opere fortificate del Luganese per evitare che finissero nelle mani di un esercito invasore. Militarmente questo tipo di castelli risultavano superati dal punto di vista difensivo, vulnerabili all'artiglieria e alla «tecnica del cedimento» (gli assedianti scavavano gallerie sotto le mura per provocarne il crollo). Il motivo principale risiede però nel fatto che la pace stipulata con la Francia prevedeva, per i Cantoni svizzeri, la possibilità di «commutare» il possesso di Lugano, Locarno e Valmaggia con la cifra di 300 mila corone. I cantoni «gottardisiti» temevano che gli altri cantoni avrebbero ceduto al Dio denaro, offrendo ai francesi una roccaforte da cui poi attaccare Bellinzona. Gli urani decisero allora di agire preventivamente distruggendo Castel Maggiore a Lugano (che sorgeva dove oggi c'è Villa Ciani). Poco tempo dopo la stessa sorte toccò a Sonvico, all'epoca quasi certamente fortificata. È probabile che per gli stessi motivi i confederati rasero al suolo anche la fitta rete di castelli presenti nell'Alto Vedeggio. Un imponente e capillarissimo sistema difensivo oggi sconosciuto ai più, le cui rovine giacciono in mezzo ai boschi. Proprio quest'ultimo – il Castello di Taverne – è stato recentemente ripulito dalla vegetazione e, per facilitarne l'accesso, il Comune ha finanziato la rinascita del sentiero che porta ai suoi ruderi. In compagnia di Francesco Ryf, l'ingegnere che si è occupato dei lavori, abbiamo dunque visitato le rovine della vecchia fortezza in un viaggio indietro nel tempo.
Posizione strategicaIl maniero si trova in cima al Dosso e dunque chiude l'accesso alla valle che, proprio in quel punto, diventa particolarmente stretta. Oggi il castello è immerso nei boschi ma, nel Medioevo, l'area era sicuramente dedicata all'agricoltura e alla pastorizia. È facile dunque immaginare la sua importanza strategica. Verso Sud garantiva il controllo di tutto il Vedeggio, mentre per ovviare alla limitata visuale verso Nord, è probabile che il castello si affidasse a delle sentinelle posizionate sul Monte Barro (dove resti di strutture murarie e di una costruzione a quadrangolare fanno pensare all'esistenza di un'altra struttura militare) e poi ancora più in alto, a un punto di osservazione in territorio di Sigirino. Il tutto, ovviamente, permetteva una comunicazione con i castelli di S. Ambrogio (a Mezzovico), Santa Sofia (a Bironico) e forse anche con il Castello di Mattero a Gravesano (e con la torre di Redde in Capriasca?).
La storiaÈ probabile che sia stato eretto tra il 1300 e il 1400 dai Rusca di Como. Viene citato in un documento nel 1354 e forse (stando al Dizionario storico della Svizzera) segnava il confine dei possedimenti della corte regia di Agnuzzo. Possibile che la struttura sia stata edificata su una postazione longobarda preesistente, forse addirittura tardoantica.
Quel che resta e quel che non c'è piùNel 1997 la professoressa Christiane De Micheli ha compiuto sul posto un indagine topografica. L'intera area (pari a circa 1.400 metri quadri) è oggi ricoperta da sassi e rocce che un tempo componevano le mura del castello. Sono ancora evidenti i resti di almeno una torre, della cinta muraria, di una cisterna (ben conservata) e di altri ambienti. La torre, a base rettangolare, aveva muri spessi un metro. Sul versante settentrionale è stata identificata un'apertura larga circa due metri, mentre nel tratto orientale è visibile un accesso di 2,7 metri, quasi certamente la porta principale.Come visto le informazioni sono poche e da più parti si auspica un'indagine archeologica (che permetterebbe di chiarire diversi punti ancora oscuri) e tecnico-storica. Un lavoro che – oltre all'Ufficio dei beni culturali e al Servizio archeologico cantonale – potrebbe coinvolgere l'Università, la Confederazione, i Comuni interessati e magari pure qualche privato.