Urne aperte domenica

Turchia, torna la questione curda

Le ultime battute della campagna elettorale caratterizzate dalle accuse del presidente Recep Tayyip Erdoğan al suo avversario più accreditato, Kemal Kılıçdaroğlu, sulla vicinanza al PKK
© KEYSTONE (AP Photo/Khalil Hamra)
Marta Ottaviani
11.05.2023 06:00

Era una campagna elettorale fin troppo tranquilla, se si considera la posta in gioco. La Turchia domenica va al voto in quelle che vengono considerate elezioni cruciali per il futuro del Paese e di tranquillo è rimasto davvero ben poco.

Il 14 maggio, oltre 60 milioni di turchi sceglieranno la composizione del nuovo Parlamento e soprattutto il nuovo Capo dello Stato che, in base alla riforma costituzionale del 2017, gode di poteri pressoché illimitati. Per la carica più alta della Repubblica, probabilmente bisognerà attendere il 28 maggio perché, al momento, nessuno dei due principali sfidanti avrebbe il 50% dei voti più uno necessari per vincere. La notizia è che questa volta a rincorrere c’è il presidente Recep Tayyip Erdoğan, al potere da oltre 20 anni, prima come premier e poi come presidente della Repubblica, che cerca di centrare l’obiettivo del terzo mandato.

Caccia agli indecisi

L’occasione, per lui, è particolarmente solenne. Il 29 ottobre la Turchia festeggerà i 100 anni dalla fondazione. Erdoğan vuole essere sul palco a godersi i festeggiamenti da numero uno e, soprattutto, vuole farlo da padrone assoluto di un Paese che ha cambiato in modo consistente negli ultimi due decenni. Dall’altra parte, c’è Kemal Kılıçdaroğlu, 74 anni, formazione economica e lunga esperienza in politica (è deputato ormai dal 2002).

Detto il «Gandhi» della politica turca per i suoi modi pacati, in questo momento staccherebbe il presidente in carica di meno di due punti. Troppo pochi per cantare vittoria anche perché, dopo settimane di relativa quiete dovute anche al mese sacro del Ramadan, la campagna elettorale ha subìto una forte accelerazione, e adesso si è quasi alla lotta senza esclusione di colpi.

Entrambi gli schieramenti danno la caccia agli indecisi dell’ultimo momento, i quali potrebbero essere invogliati ad andare alle urne dopo l’affluenza record da parte dei turchi che vivono all’estero (2,5 milioni gli aventi diritto).

In tutte le sedi diplomatiche, infatti, si sono formate lunghe code, con migliaia di persone che hanno atteso pazientemente di poter esprimere la propria scelta. Una bella dimostrazione di partecipazione alla vita politica, cosa che non sorprende se si pensa che quello turco è un popolo che vota e che la percentuale non è mai inferiore al 74%. In occasione di queste elezioni potrebbe essere battuto ogni record precedente.

Due coalizioni principali

Le due coalizioni che si contendono il controllo del Parlamento - l’Alleanza per la Repubblica, capeggiata dal presidente Erdoğan, e l’Alleanza per la Nazione, condotta da Kılıçdaroğlu - sperano di chiudere la partita già domenica ed evitare un secondo turno che potrebbe polarizzare troppo il Paese. Ma per il momento i numeri non ci sono. Secondo gli ultimi sondaggi, i consensi dei due candidati minori - Muharrem İnce, scrittore e insegnante, fondatore e leader del Partito della Patria, e Sinan Oğan, economista di origini azere e leader della coalizione Ata İttifakı - si sarebbero drasticamente ridotti. Segno che anche il popolo turco è tentato dal voto utile, per farla finita il prima possibile. Chi si sta impegnando molto in questo senso è il leader curdo del Partito Democratico dei Popoli (HDP), Selahattin Demirtaş, il quale dal carcere, dove è rinchiuso dal 2017, ha reso noto il suo appoggio a Kılıçdaroğlu.

Il motivo nazionalista

Il partito curdo darà appoggio esterno, perché non rientra nella coalizione a sei di cui fanno parte almeno due formazioni politiche di destra, con le quali non avrebbe vita facile. Ma questa volta, il voto curdo - un buon 10% del totale - potrebbe essere determinante. Soprattutto se andrà a sostenere il candidato dell’opposizione che, in caso di vittoria, non potrà ovviamente non tenerne conto. Negli ultimi giorni di campagna elettorale, Recep Erdoğan sta usando l’appoggio curdo come arma contro l’avversario, accusandolo di aver stretto un patto con il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, tuttora fuorilegge nel Paese.

Il motivo nazionalista in Turchia paga sempre, così come le manifestazioni di forza. Per questo, domenica scorsa il presidente ha portato in piazza a Istanbul 1,7 milioni di persone in quello che ha definito «il comizio del secolo». Una cifra che lascia scettici molti addetti ai lavori, ma le polemiche in questo momento sono dirette su ben altro. Da giorni, sui social, circola la testimonianza di un ex appartenente del cerchio magico di Erdoğan, secondo cui dei tre miliardi impiegati per la costruzione dell’aeroporto di Antalya, uno sarebbe finito dritto nelle tasche del presidente.

Attacchi pericolosi

L’atmosfera inizia a diventare sempre più calda anche dal punto di vista della sicurezza. Due giorni fa a Sakarya, nell’Anatolia Nord-occidentale, l’autobus del comitato elettorale di Kılıçdaroğlu è stato preso a sassate. A bordo c’era anche il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, considerato l’astro emergente dell’opposizione turca. La polizia ha fatto finta di nulla e questo non è un buon segnale.

Le forze armate e le forze dell’ordine sono sotto lo stretto controllo del presidente: non aver tutelato l’opposizione durante la campagna elettorale fa temere atteggiamenti ancora più pericolosi nel caso in cui la contrapposizione nel Paese dovesse aumentare. Per questo, gli analisti concordano su una cosa: chiunque vinca, deve farlo con un margine così ampio da non suscitare polemiche.

Post terremoto, incerto il voto di oltre due milioni di sfollati

Quelle di domenica prossima in Turchia sono elezioni che si giocano soltanto sull’economia. Recep Tayyip Erdoğan, paradossalmente, rischia di perdere a causa di ciò che è stato il suo fiore all’occhiello e la garanzia delle sue vittorie per anni. Ma il risultato è ancora tutto da scrivere: i sondaggi che davano Kemal Kılıçdaroğlu in testa di cinque punti si sono rivelati poco accurati. «Già il fatto che il presidente Erdoğan per la prima volta senta il fiato sul collo è un dato importante e per lui è sicuramente causa di forte preoccupazione», spiega al Corriere del Ticino Berk Esen, professore di Scienze Politiche alla Sabanci University di Istanbul.

Se il presidente dovesse perdere, questo potrebbe determinare la fine della sua carriera politica. Il Capo dello Stato turco, il prossimo 26 febbraio, compirà 70 anni, di cui oltre 20 passati a guidare il Paese. Cederebbe a un soffio dall’ultimo obiettivo finale: traghettare la Turchia nel suo secondo secolo di storia. Un risultato importante, però, il «Reis» lo ha già ottenuto: passerà alla storia come il leader turco più importante dopo Mustafa Kemal Atatürk, colui che ha fondato la Turchia moderna nel 1923; Erdoğan, però, sarà ricordato anche come l’uomo politico che più di altri ha allontanato definitivamente il Paese dall’idea di nazione laica e moderna a cui pensava Atatürk. Ovviamente, al presidente 20 anni non «bastano», quindi, anche questa volta si giocherà tutte le sue carte, sapendo però che gli assi nella manica sono addeso molto pochi.

I fattori decisivi

«Ci sono senza dubbio due fattori determinanti - continua il professor Esen - Il primo è la situazione economica del Paese, della quale Erdoğan viene visto come principale responsabile, a causa dell’inflazione molto alta e del cambio sulla valuta straniera che è alle stelle da mesi. Per il presidente, la situazione economica fiorente del Paese è sempre stata un fiore all’occhiello, stavolta è un’arma elettorale importante che viene a mancargli. C’è poi il terremoto dello scorso 6 febbraio, che ha letteralmente stravolto il Paese. Le persone che ne soffrono le conseguenze a diverso livello sono milioni».

Proprio per questo motivo, il presidente ha deciso di concentrare nel Sud-Est del Paese colpito dal sisma la maggior parte della sua campagna elettorale, a favor di camera accolto sempre da bagni di folla in adorazione e promettendo che la ricostruzione sarà rapida. Il «fattore terremoto» rappresenta un’incognita anche per quanto riguarda la trasparenza delle operazioni di voto.

Le persone che hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni sono quasi due milioni, sparse in tutto il Paese, spesso a centinaia di chilometri dai territori di provenienza. L’alta commissione elettorale ha garantito che potranno votare in modo pienamente regolare, ma non è ancora chiaro come verranno conteggiate le loro preferenze. E sono persone che, a causa del ritardo nei soccorsi dopo le scosse, potrebbero voltare le spalle al presidente. 

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