L'opinione

Strada di Gandria: il Cantone reinventa l’arte del patchwork in chiave bituminosa

Il Cantone, in un lampo d’avanguardia, ha scelto di non rifare l’intero manto stradale, ma di procedere per segmenti, quasi tessere di un mosaico monocromatico, un puzzle grigio-nerastro da interpretare – Altro che rifacimento: qui siamo di fronte a un’opera d’arte concettuale a cielo aperto
Patrick Trancu
31.05.2025 15:36

A guardarla dall’alto – magari con quel distacco contemplativo che si riserva alle installazioni più audaci della Biennale di Venezia – la Strada di Gandria non sembra più una via cantonale, ma una tela post-industriale. Una sorta di Pavement Art Brut dove l’asfalto diventa medium e la ruspa pennello. Altro che rifacimento: qui siamo di fronte a un’opera d’arte concettuale a cielo aperto. Il Cantone, in un lampo d’avanguardia, ha scelto di non rifare l’intero manto stradale, ma di procedere per segmenti, quasi tessere di un mosaico monocromatico, un puzzle grigio-nerastro da interpretare.

È il trionfo del patchwork stradale, omaggio involontario – o chissà, magari no – a un certo minimalismo à la Donald Judd, ma con il pragmatismo svizzero che trasuda da ogni colata. Non ci sono linee rette né uniformità cromatica: solo contrasti, giunzioni, improvvise virate di tono. Qui un grigio antracite profondo come un pensiero di Malevič, là un nero opaco che sembra uscito da un incubo asfaltato di Burri. E se si guarda bene, si notano addirittura eleganti reticolati di linee d’asfalto che tentano, senza riuscirci davvero, di nascondere le cicatrici più profonde: segni calligrafici, quasi segreti, che ricordano le venature dorate del kintsugi giapponese – solo, senza l’oro e con meno poesia.

In fondo, perché accontentarsi di una strada liscia e monotona quando si può percorrere un’opera d’arte interattiva? Ogni automobilista è così costretto – o privilegiato – a vivere l’esperienza dell’estetica del dislivello, un sobbalzo alla volta. Come in certe performance degli anni ’70, anche qui il pubblico è parte integrante del lavoro: lo vive, lo sente sotto le ruote, lo commenta con fervore.

Certo, si sarebbe potuto osare di più. Se davvero si trattava di lanciarsi nel mondo dell’arte pubblica, perché fermarsi al grigio e al nero? Un tocco di cromatismo alla Rothko, un’iniezione di pop alla Haring, magari qualche tono cangiante in stile Op Art per stimolare i sensi e destabilizzare la percezione – e invece no: si è scelto il rigore, la sobrietà. Forse per rimanere in tema con i tagli di bilancio.

Il risultato è una strada che, più che percorsa, andrebbe esposta. E se proprio deve restare lì, almeno che qualcuno le dedichi una targa: «Composizione stradale n. 1 (Gandria), bitume su cemento, autore: ignoto, ma approvato dal Cantone».

Nel frattempo, gli automobilisti affrontano l’opera con la devozione di chi sa di trovarsi davanti a qualcosa di più grande, qualcosa che sfugge al semplice concetto di viabilità. Magari maledicendo ogni buca, ma con la consapevolezza che, in fondo, stanno attraversando un pezzo d’arte. O quantomeno, un pezzo.