L'intervista

«Ho aspettato Godard a Losanna per tre giorni, quando arrivò giocò con i gatti»

Nathalie Baye, attrice francese di cinema, teatro e televisione, si racconta
Nathalie Baye, atrice francese di cinema, teatro e televisione.
Max Armani
27.11.2022 17:14

Il fisico minuto, l’aria dolce, lo sguardo deciso, il sorriso a fior di labbra, Nathalie Baye non è cambiata anche se oggi è una delle grandi signore del cinema francese la cui carriera sfolgorante non si è mai arrestata e continua a collezionare ruoli e film con la stessa passione e determinazione con la quale debuttò per la prima volta in Effetto Notte (1973) di François Truffaut. Noi l’abbiamo incontrata a Firenze, invitata d’onore del festival di cinema francese «France Odeon», alla proiezione di Detective da lei interpretato accanto a Johnny Hallyday, nella giornata dedicata a Jean-Luc Godard e l’abbiamo intervistata.

Era il 1985, lei e Johnny Hallyday eravate i divi del momento. Il rocker più famoso di Francia era il suo compagno nella vita, perché Godard volle entrambi nel film?

«Godard era venuto a trovarmi per propormi questo film nella casa dove vivevo con Johnny e credo che vederci insieme, così affiatati, gli abbia fatto venire l’idea di prendere entrambi nel film. Johnny aveva accettato con entusiasmo, ma in cuor suo era preoccupato. Come cantante era abituato alle folle e al palcoscenico, non ai set cinematografici. Un po’ lo ero anch’io per lui. Anni prima facevo parte del cast di Sauve qui peut (la vie), e con Isabelle Huppert e Jacques Dutronc, arrivati a Losanna per le riprese, per tre giorni siamo stati in albergo ad aspettare Godard per parlare del film. Quando finalmente venne a trovare me, invece di parlare del mio ruolo, «chiacchierò» con i due gatti che mi porto sempre dietro nei miei viaggi, poi mi fece i complimenti e se ne andò».

E sul set di Detective com’è andata con questo regista notoriamente poco malleabile?

«Devo dire che con me era sempre gentile, e lo fu anche con Johnny, anzi con lui fu molto disponibile. Ma Godard sapeva sempre ciò che voleva e questo almeno per me, rendeva le cose più semplici. Tuttavia l’atmosfera sul set era incandescente. All’epoca avevo pensato che era un peccato che nessuno facesse un film sul dietro le quinte di Detective perché succedevano cose da pazzi. Si giravano scene che spesso sembravano incomprensibili, perché nella trama erano cucite più storie poliziesche e il film era una summa di thriller e di ruoli di genere e noi ci sentivamo a volte un po’ persi anche se in molte inquadrature Godard ci metteva «in posa» in modo preciso. Ho rivisto il film oggi, l’ho trovato divertente, ma non ricordavo niente di quella storia intricata».

Lei ha interpretato più di novanta film, documentari, cortometraggi, serie, e ha lavorato con registi famosi da Pialat, a Steven Spielberg, a Xavier Dolan, solo per citarne alcuni, i registi sono spesso così complicati?

«Molti registi amano più i personaggi dei loro film che gli attori e vogliono solo ottenere l’interpretazione che hanno in mente. Perciò alcuni preferiscono che l’attore arrivi sul set sapendo il minimo indispensabile della storia e del suo ruolo. Ci sono registi come Steven Spielberg col quale ho lavorato in Prova a prendermi dove ero la madre francese di DiCaprio, che spiegano, raccontano, rassicurano; altri invece sono capaci di freddezze, crudeltà e umiliazioni pur di provocare nell’attore, la performance che vogliono in una certa scena».

La sincerità di ciò che leggo nel copione è per me determinante. E poi devo sentirmi subito a mio agio con il personaggio

Quando sceglie un film, conta di più per lei il ruolo, o il regista che glielo offre?

«La sincerità di ciò che leggo nel copione è per me determinante. E poi devo sentirmi subito a mio agio con il personaggio, altrimenti lascio perdere. Certo il regista conta molto, ma viene dopo».

Si è mai trovata in disaccordo con il regista? Si è mai ribellata alle direttive che le hanno dato?

«Vengo dalla danza classica dove per anni ho studiato sotto la guida di maestri russi che mi hanno inculcato una disciplina ferrea. Mai un sorriso, mai un complimento. Erano dei veri generali. Forse per questo non mi è mai pesato obbedire alle direttive di un regista».

In un episodio molto divertente della famosa serie francese Chiami il mio agente (Netflix) lei recita accanto a sua figlia (e di Johnny Hallyday), Laura Smet. Quando ha saputo che voleva fare l’attrice non ha avuto la tentazione di dissuaderla?

«Era la prima volta che recitavamo insieme ed è stato molto piacevole. A suo tempo i miei genitori non mi hanno mai impedito di fare ciò che volevo: ho scelto di fare danza, poi teatro e poi invece ho preso la strada del cinema. Perché avrei dovuto farlo io con mia figlia? L’unica cosa che le ho detto, è che il mestiere di attore è un continuo alternarsi di grandi gioie e grandi paure e se non si riesce a sopportarlo, meglio lasciar perdere. Può succedere di fare un film in cui sei acclamata da tutti e magari subito dopo, per mesi e mesi, non ti cerca più nessuno. È come se avessi il telefono rotto».

L’unica cosa che mi sento di dire è che i figli degli attori che entrano nel mondo dello spettacolo non hanno vita semplice. Dall’esterno si può pensare che abbiano la strada spianata, ma non è così

Anthony Delon, attore, ha recentemente scritto un libro in cui fa i conti con se stesso, suo padre Alain, la famiglia e il mondo dello spettacolo, lei lo ha letto?

«No, non ancora. Conosco Alain Delon con il quale ho girato alcuni film ed è un attore formidabile ed un amico. L’unica cosa che mi sento di dire è che i figli degli attori che entrano nel mondo dello spettacolo non hanno vita semplice. Dall’esterno si può pensare che abbiano la strada spianata, ma non è così. Quando ottengono un ruolo importante c’è sempre chi dice: Ecco vedi hanno scelto lei, o lui per via di suo padre, o di sua madre. Ed è una cosa sgradevole che alla fine mina la tua sicurezza».

Secondo lei qual è la cosa più bella del mestiere di attrice?

«Per me, una delle cose più belle sono gli incontri che si fanno. In questa professione tutto è un po’ effimero, per ogni film spesso si forma una sorta di famiglia che poi alla fine si dissolve e c’è chi ne soffre. Ma s’incontrano sempre persone nuove, molto interessanti, a volte fantastiche. Ho conosciuto registi magnifici, che avevano un’immaginazione senza limiti come Godard ad esempio, e grazie a loro ho vissuto esperienze indimenticabili. In Sauve qui peut la vie il mio personaggio girava continuamente in bicicletta e in una scena c’era scritto che dovevo scendere giù per un viottolo e dopo una curva immettermi in una strada più grande. La sera prima di girarla Godard mi spiega che ha fatto un cambiamento, visto che ero stufa di andare su e giù in bicicletta e che una volta avevo detto che mi piacevano gli elefanti. In effetti il giorno dopo alla curva del viottolo c’è un elefante che ferma la mia bicicletta, io scendo e lui con la proboscide mi prende per la vita e mi issa sulla sua groppa. La scena era speciale, ma venne completamente tagliata al montaggio. Se non fosse per una fotografia che riuscì a farmi scattare mentre giravamo e che è la prova che è successo tutto davvero, io stessa non ci crederei».