Arte

Il colore dei sogni nelle opere del contadino dell’Art Brut

Una mostra da non perdere a cent’anni dalla nascita di Claudio Baccalà
L’esposizione è allestita fino al 3 settembre nel Deposito della Fondazione Matasci per l’Arte di Cugnasco. © Ti-Press / Alessandro Crinari / ProLitteris Zürich
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
27.08.2023 09:15

Mario Matasci è in piedi, proprio davanti a un’opera di Claudio Baccalà. Che cattura il suo sguardo. «Cosa ci vedo?», dice, ripetendo la domanda del giornalista. «È difficile rispondere, difficile spiegare un’emozione», chiarisce dopo essersi lasciato sfuggire un sorriso. Che gli ha illuminato gli occhi per un secondo. Emozioni. Sono le uniche che non si contano qui, a Cugnasco-Gerra, dove esiste «Il Deposito» della Fondazione Matasci per l’Arte. Un luogo unico. Che appare lontano da tutto e tutti. Quasi sacro. Ce ne si accorge non appena si varca la soglia. Qui è un altro mondo. Come in un altro mondo sembra aver vissuto il Baccalà artista. Di cui la Fondazione Matasci ha acquisito 200 opere e una trentina di queste le ha esposte da maggio fino al prossimo 3 settembre.

Pittore e poeta

Pittore, ma anche poeta, Claudio Baccalà nasce cento anni fa a Brissago e muore nel 2007 a Locarno. Nel 1945 comincia a dipingere da autodidatta. Quattro anni dopo nel 1949 incontra Jean Dubuffet, considerato il fondatore del movimento artistico dell’Art Brut, che si interessa alla sua produzione e gli procura i primi contatti con Parigi e Bruxelles. Per Baccalà significa iniziare anche a conoscere gli ambienti intellettuali e artistici delle due città. Nel 1951 tiene la prima personale alla Galerie Hutter di Basilea. Poi non si ferma più. Espone in gallerie e musei svizzeri, tedeschi e francesi, fra cui la Galerie Rive Gauche a Parigi. Nel 1973 ottiene il Premio per la pittura alla 1. Biennale der Schweizer Kunst, Stadt in der Schweiz organizzata a Zurigo. Nel 1997 gli viene dedicata un’antologica alla Pinacoteca Casa Rusca a Locarno.

«La mia arte verrà capita»

Visionario, mitologico, fantastico. Ma anche sacro, fisolosofico, gioioso. E pastorale. L’universo creativo di Baccalà è unico. A sé stante. «Penso che la mia sia un’arte reale - spiega lo stesso Baccalà a Monica Calastri, che lo intervista il 21 ottobre 1993 per Opinione Liberale - chi non la capisce ora, la capirà. La mia arte, se così si può dire, non viene dalla testa, ma è direttamente legata alle sensazioni».

Di lui Mario Botta, archistar, intervenendo nel libro del 2008 I sogni dipinti di Baccalà, dice. «Rimane intatta nell’opera di Baccalà la magia di quel suo vocabolario espressivo straordinariamente personale, autentico, irripetibile, del tutto autonomo rispetto ad altri linguaggi pittorici. Ogni quadro è l’inizio e al tempo stesso la fine di un magico percorso composto da segni che diventano immagine, forma, spazio e torni di luce».

Mario Matasci, 92 anni e neppure un malanno, che conserva ed espone le opere di Baccalà, dopo averle restaurate e «listellate», si muove con passo sicuro tra gli ambienti de «Il Deposito». Che domenica scorsa ha raggiunto «le 752 domeniche di fila», tiene a sottolineare con orgoglio il fondatore.

«Era un uomo mite»

Matasci cammina. Spedito. A un certo punto si ferma prima davanti a una tela. Poi a un’altra. Tutte le volte osserva. Per alcuni minuti. In silenzio. Quasi in contemplazione. «Baccalà era una persona molto mite - aggiunge a un certo punto - parlava a bassa voce ed era sempre sorridente. Del resto solo un uomo che è in pace e ha tanta pazienza può realizzare opere come queste». Guardare i suoi alberi, che accompagnano, come scrive Dalmazio Ambrosioni nel catalogo d’arte che accompagna la mostra, l’intero percorso creativo di Claudio Baccalà, equivale a entrare nell’universo creativo dell’artista. Fatto di decine e decine di colori vivaci. Esplosivi.

Allusioni fabulistiche

Angelo Casé nell’articolo La protesta cromatica di Baccalà pubblicato su Azione nel 1969, va ancora più in là. «(...) Baccalà racconta per allusioni, talora fabulistiche, con un loro centro lirico assai acceso. Però l’allusività di ogni suo racconto, aggredisce, eccome: per via dell’audacia insolita dei colori della sua tavolozza: di qui, un modo tutto personale di trattare le vicende anche disperate con sottili echi, che via via rimbombano concentricamente, acquistando sonorità di sirena, squillo di campana a martello, boato esplosivo (...)».

Altrettanto esplosivo è il secondo piano de «Il Deposito». Lo si raggiunge in ascensore. E subito si scopre di entrare nello scrigno più intimo di Matasci. Perchè è qui che sono esposte le opere a lui più care. Opere che sembrano avere lo stesso filo in comune. La sofferenza. Uno stato d’animo o un lato del vivere «verso cui sono attratto», confida il collezionista, prima di fermarsi di nuovo davanti a un’opera d’arte.

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