«A Gaza una volta c'era vita, ora solo morte»
Il saggio di Valerio Nicolosi, giornalista, scrittore, fotografo e regista (ha diretto il film «Ants» sulle rotte migratorie verso l’Europa e altri documentari a sfondo sociale), «C’era una volta Gaza» (Rizzoli, 265 pp., 19 €) dove racconta con impietosi affondi nella realtà «Vita e morte del popolo palestinese», è una testimonianza in presa diretta, un reportage che sconcerta. «Vado in Palestina da oltre dieci anni - premette Nicolosi -. Il primo viaggio l’ho fatto a Gaza per lavoro (insegnavo giornalismo e fotografia all’università), dopo l’operazione militare israeliana “Margine di protezione” che aveva raso al suolo ogni cosa: sono entrato quando c’erano ancora tante macerie e la ricostruzione non era stata avviata. L’ultimo viaggio è stato lo scorso maggio in Cisgiordania sempre tra rovine, pericoli e disastri che stringono il cuore».
Qual è lo stato d’animo prevalente delle persone che ha incontrato?
«Le persone che ho conosciuto dieci anni fa avevano ancora molta voglia di restare nonostante tutto. Il problema è che poi le operazioni militari con gli anni rendevano la vita più difficile e i ragazzi non volevano più restare a Gaza dove la vita era diventata un dramma. Millenni di storia, secoli di battaglie e decenni di occupazione e lotta per ogni singolo centimetro di terra. Molti di loro che studiavano all’università, sono riusciti a scappare, e quelli che sono rimasti vorrebbero fuggire da quell’inferno, ma non ci riescono. Una volta c’era la vita a Gaza, oggi solo la morte: una favola amara».
Quanto è grande la loro delusione e la loro rabbia?
«Non c’è più rabbia: ormai c’è solo sconforto. Non ci sono più prospettive, non c’è più futuro. Quando il 7 maggio scorso, Israele ha occupato il valico di Rafah per loro è finita. Anche l’unica prospettiva che avevano di riuscire a scappare è svanita. Uno mi ha detto: «Il nemico è più grande, la storia si è capovolta e noi siamo David mentre loro, gli ebrei, sono Golia. Per sconfiggerli non serve un eroe solitario, ma una organizzazione che ci guidi». L’obiettivo del mio insegnamento era dare non solo una formazione ai tanti giovani disorientati dalle guerre, ma anche la speranza che un giorno potessero uscire dall’assedio. Purtroppo le cose sono finite male».
Che tipo di vita è quella che si svolge nei campi profughi?
«Di sussistenza, tra mille difficoltà e privazioni perché manca tutto. Mi colpisce la loro umanità dimessa, e quando vado via ho sempre una forte rabbia dentro di me per come vivono le persone, ammassate come bestiame in un recinto tra enormi problemi igienici- sanitari. Per questo nei campi profughi cresce la ribellione. E anche morire a vent’anni sembra normale, invece non lo è».
I giovani palestinesi, come immaginano il loro futuro?
«Anche i bambini oggi dicono che da grandi vogliono fare i combattenti e i martiri. Quando nasci e cresci in un campo profughi dove ogni momento c’è un’operazione militare un ragazzo di vent’anni cosa deve fare? Alzarsi tutte le mattine e studiare in un posto dove non c’è più lavoro e l’odio è il nutrimento più abbondante?».
Si dice che la quantità di esplosivo lanciato su Gaza, sia enorme: una ritorsione anche per vendicare i morti israeliani dell’attacco del 7 ottobre 2023?
«Non so se possiamo chiamarla vendetta ma quello che sta succedendo a Gaza è che Israele non sta colpendo gli uomini di Hamas ma i palestinesi. Hamas ha perso tanti combattenti, tanti battaglioni delle sue brigate, ma non è stato sconfitto. Israele vuole l’annichilimento di Hamas, ma questo non è possibile. Hamas non lo sconfiggi con operazioni militari. Gli israeliani avranno ucciso diversi comandanti, ma le milizie di Hamas sono ancora lì: vuol dire che questa non è la strategia giusta. E questo l’hanno capito anche gli israeliani che premono per tornare alle urne e mandare a casa Netanyahu».
Perché la Palestina ha il diritto di esistere?
«Il popolo palestinese era lì da prima della nascita dello Stato di Israele. Nel 1948 settecentomila palestinesi furono costretti a lasciare le loro case; nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni quando Israele occupò Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la striscia di Gaza e la penisola del Sinai, altri palestinesi furono espulsi dalle loro terre. Io credo che sia indispensabile un percorso di pace vero che preveda il congelamento immediato della situazione attraverso una soluzione democratica all’interno della Palestina, che sancisca dei confini e il diritto ad esistere di entrambi i popoli. Non si può dire di cancellare Israele, ma non si può neanche dire di cancellare la Palestina perché i palestinesi hanno diritto a una terra».
A Gaza è in corso un «genocidio»?
«Pensando alle parole della Corte Internazionale, devo dire di sì. Dopo quarantamila morti di cui sedicimila bambini, penso a Srebrenica nella ex Jugoslavia, e mi viene la pelle d’oca: quello è stato un genocidio riconosciuto e i morti furono 8.000. Con quarantamila vittime sarà difficile - se dovesse andare davanti alla corte penale internazionale - che Beniamin Netanyahu possa sostenere che non ha commesso crimini di guerra. Su di lui e un generale c’è una richiesta di mandato di cattura internazionale».
Hamas, organizzazione terroristica per l’Occidente, a Gaza partito politico che gestisce il potere sulla base delle rivendicazioni territoriali. Qual è il suo vero ruolo?
«Hamas è una forza complessa: è un partito di governo molto cinico, è un’organizzazione politica che prospera nei quartieri più poveri dove ha le sue roccaforti e con le sue milizie combatte contro Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico. Ma se riduciamo tutto a «sono brutti e cattivi», non abbiamo capito questo fenomeno e non capiamo perché in passato - ma anche oggi -, hanno un sostegno».
Già perché Hamas è sostenuta?
«Prima del 7 ottobre 2023, Hamas non aveva più la maggioranza, in particolare tra i palestinesi della striscia di Gaza. Nel 2021 dovevano esserci le elezioni presidenziali in Palestina ma per una serie di motivi non si sono svolte. Hamas in quel momento non sarebbe andato oltre il 20% dei voti. Sicuramente avrebbe vinto Marwan Margutti, il più importante leader palestinese da oltre vent’anni prigioniero nelle carceri israeliane. Aveva collaborato con Arafat, ed è stato anche comandante delle brigate dei «Martiri di Allah”. Poiché ha contribuito anche agli accordi di Oslo credendoci fortemente, sono in parecchi a pensarlo come l’ultima speranza per un processo di pace».
Poi che è successo?
«Hamas ora è rilanciato ma a Gaza ha il minimo dei consensi, anche se in Cisgiordania ha un grande as cendente soprattutto fra i giovani. Ad ogni nuova operazione israeliana e a ogni nuovo morto palestinese, Hamas vede crescere il consenso nelle aree più radicali. L’operazione al-Aqsa Storm cambia la Storia e le storie».
Qual è, in questo contesto, il ruolo delle colonie ebraiche e dei coloni?
«La destra israeliana e i coloni sono funzionali ad Hamas come Hamas è funzionale a loro e alla destra radicale in generale. Le colonie saranno il grande problema del futuro, perché i coloni sono la parte più estremista della politica israeliana: sono la fascia dell’apartheid, che il popolo palestinese sta soffrendo da parte di Israele. Bisogna superare il radicalismo religioso e avviare un discorso di pace e di dialogo e dire che c’è spazio e diritti per entrambi prima che tutta Gaza - l’enclave nata nel 1948 - sia distrutta e le probabilità per uno Stato palestinese siano sempre meno».