Sport

Cosa dicono i neuroni dei tifosi di calcio

Il lato scientifico del tifo da stadio secondo la neuroscienziata dell'EOC Gianna Carla Riccitelli - «Attiva circuiti cerebrali della ricompensa e della memoria affettiva»
©Gabriele Putzu
Marco Ortelli
14.12.2025 06:00

Quando diciamo che «il calcio è una questione di cuore», raccontiamo solo una parte della storia. Perché, in realtà, è il cervello che accelera, si accende, scarica adrenalina e registra emozioni come se la partita fosse un fatto personale. A ricordarcelo, uno studio firmato dal professor Francisco Zamorano dell’Università San Sebastián, in Cile: 60 tifosi monitorati per capire cosa accade nella mente di chi vive il calcio non come spettacolo ma come identità. Per interpretare questo fenomeno, abbiamo «interrogato» la Dott.ssa Gianna Carla Riccitelli, docente alla Facoltà di Scienze Biomediche dell’USI e specialista in neuroscienze al Neurocentro della Svizzera italiana (EOC), dove guida l’Unità di Stimolazione Cerebrale Non Invasiva e coordina progetti innovativi su neurostimolazione e teleriabilitazione.

Un legame scritto presto nel cervello

Secondo la neuroscienziata, il legame con una squadra «nasce da una combinazione di apprendimento sociale e formazione identitaria. L’appartenenza a un gruppo attiva circuiti cerebrali della ricompensa e della memoria affettiva già in età precoce». Insomma: molto accade nell’infanzia, quando la squadra del cuore diventa un’estensione simbolica della famiglia. «È un imprinting emotivo, spesso favorito dal contesto familiare e culturale, ma poi interiorizzato a livello cerebrale. In particolare, l’identificazione con il gruppo (in questo caso la squadra) stimola l’attività della corteccia anteriore del cervello implicata nelle decisioni valoriali e nell’attaccamento». Non è solo tifo, è appartenenza.

Un gol vale come un grande evento della vita

Lo studio di Zamorano lo mostra con chiarezza: un gol può attivare le aree del cervello coinvolte negli eventi di enorme rilevanza personale. Riccitelli lo conferma: «per i tifosi più coinvolti, un gol attiva il cervello in modo simile a eventi di grande significato personale, con una forte attivazione del sistema limbico, del circuito della ricompensa e delle aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione del valore affettivo e sociale. Questo perché il gol non è solo un evento sportivo: per molti tifosi rappresenta un’esperienza identitaria e relazionale, con un impatto emotivo comparabile a quello di eventi biografici rilevanti».

Il discorso vale anche al contrario. Una sconfitta pesa più del previsto perché, aggiunge la neuroscienziata, «attiva meccanismi simili al dolore sociale. In questi contesti si attivano le stesse aree cerebrali di quando proviamo dolore fisico». Dolore vero, dunque, radicato nell’identità.

E cosa accade a livello corporeo quando la nostra squadra subisce un gol? Allo Stadio reazioni diverse, e nel corpo? «Nel momento in cui la nostra squadra subisce un gol, il corpo risponde con una reazione di stress acuto: aumento della frequenza cardiaca, attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, e rilascio di cortisolo. Si attivano anche circuiti cerebrali legati alla perdita e all’elaborazione del fallimento. La risposta può essere immobilizzazione emotiva o scarica motoria (accuse, gesti, proteste), in base alla struttura di personalità e alla storia emotiva del soggetto».

Stadio o divano? Il cervello cambia marcia

Essere allo stadio significa vivere un’esperienza che il cervello registra come altamente immersiva. «Dal vivo, il cervello è immerso in un’esperienza multisensoriale che amplifica le emozioni», spiega Riccitelli. Rumori, odori, contatto fisico, folla «potenziano il coinvolgimento di aree del cervello coinvolte nel controllo delle emozioni come l’insula e l’amigdala e altre aree del circuito di ricompensa che rendono le reazioni più intense rispetto a quelle vissute davanti a uno schermo». Davanti a uno schermo, le emozioni restano importanti, ma «con un coinvolgimento del corpo e relazionale attenuato».

L’istante fuori dal tempo dopo un gol

Quel secondo di sospensione, di euforia pura, che molti tifosi raccontano, ha una spiegazione precisa. «È un’intensa attivazione limbica, con un picco di dopamina nel nucleus accumbens», la stessa area che si accende nelle esperienze più gratificanti. La dottoressa sottolinea anche un fenomeno affascinante: «la sincronizzazione emotiva tra i tifosi attiva stati cerebrali collettivi», simili alle estasi rituali o musicali. Un coro di cervelli all’unisono.

La curva come organismo vivente

Cori, onde, tamburi, abbracci: la curva non è un gruppo di individui, ma un sistema coordinato. «Cori e movimenti collettivi possono sincronizzare l’attività cerebrale tra tifosi», spiega Riccitelli, ricordando come studi simili abbiano mostrato che chi suona insieme o partecipa a un concerto «vibra all’unisono» a livello neurale.

Anche la sofferenza condivisa ha una sua base biologica. Davanti a un rigore decisivo, perfino chi guarda sente il corpo irrigidirsi: «L’osservazione empatica attiva l’insula anteriore, la corteccia somatosensoriale e il cingolato anteriore», le stesse aree che si attivano nel dolore fisico. È la pain empathy.

Riti, scaramanzie e bisogno di controllo

Nel calcio, più che in altri contesti, si moltiplicano gesti ripetitivi e rituali. «I riti ripetitivi aiutano a regolare l’incertezza e a ridurre l’attività dell’amigdala, abbassando l’ansia anticipatoria». Il cervello usa la ripetizione per tenere a bada ciò che non può controllare.

Quando lo stadio respira come un solo corpo

La ricercatrice legge le dinamiche collettive come un fenomeno neurobiologico complesso: «nei comportamenti collettivi si manifesta un sincronismo tra cervello, corpo e contesto sociale». Esultanze simultanee, silenzi improvvisi, fiato trattenuto: ogni gesto collettivo «attiva circuiti neurali coinvolti nel riconoscimento delle emozioni altrui, nella regolazione affettiva e nel cervello sociale», con un fenomeno noto come inter-brain synchrony. Tutti insieme, in un unico ritmo.

Cosa resta da capire

Tra gli aspetti da approfondire, secondo la dottoressa, il più urgente riguarda «il modo in cui il tifo collettivo influenza i comportamenti sociali nei gruppi», attraverso contagio emotivo e identità condivisa. «Comprendere come le emozioni si propagano e si amplificano in un contesto di forte coesione può offrire strumenti preziosi per prevenire derive disfunzionali e per valorizzare gli aspetti positivi del senso di appartenenza, anche in contesti educativi e comunitari».

Lo sport come possibile terapia

Infine, uno sguardo sul futuro. «Un’area promettente riguarda il potenziale terapeutico dello sport vissuto da spettatori». Le emozioni condivise in un contesto regolato potrebbero favorire empatia, connessione sociale e regolazione affettiva. Riccitelli immagina applicazioni anche in giovani con autismo o disturbi dell’umore che potrebbero «aprire nuove prospettive nella riabilitazione emotivo-relazionale». Goooooooool! E poi?

In questo articolo: