I mille problemi della nuova Siria

Per l’anniversario della presa del potere a Damasco il presidente Ahmed al Sharaa è tornato ad essere Abu Mohammed al Julani. Ha lasciato nell’armadio il vestito scuro e si è presentato alla moschea con la divisa verde, quella da guerrigliero indossata per anni. Prima come qaedista, con trascorsi jihadisti duri e lotta agli americani, quindi come capo della componente principale della rivolta contro gli Assad. Simbologie, festeggiamenti, orgoglio del passato e del presente ma anche concretezza. Al Sharaa-al Julani, a questo punto della storia, non ha molto tempo da perdere. Perché la Siria è stretta tra mille problemi. Pesanti, non facili da risolvere in quanto non tutto dipende dai nuovi governanti.
La prima sfida è sociale. Un paese devastato da un conflitto brutale, infrastrutture ai minimi, oltre 2 milioni e mezzo di profughi tornati in ciò che è rimasto delle loro case, milioni di minori da sfamare. E tante ferite da curare: ci sono migliaia e migliaia di scomparsi, sopravvissuti da riportare a condizioni normali, vittime da ricordare.
Diversi Stati - a cominciare da quelli del Golfo Persico - hanno offerto aiuti per la ricostruzione ma procedono comunque con prudenza. Da un lato vogliono rimettere in sesto un pezzo importante del mosaico arabo, dall’altro temono eventuali spinte radicali: il «cartello» dell’insurrezione contiene non pochi gruppi estremisti, volontari arrivati dalla Cina al Caucaso. La Turchia, altro grande attore regionale, punta ad esercitare una grande influenza in modo diretto o attraverso formazioni a lei fedeli. La sua intelligence lavora, cuce, manovra. Per cementare rapporti e, al tempo stesso, contrastare i curdi siriani. Già, i curdi: uno dei nodi da sciogliere. Controllano una parte di territorio nel nord, hanno rapporti tesi - già segnati da scontri - con Damasco e sono nel mirino di Ankara. Negoziati, annunci di accordi, minacce si susseguono senza disinnescare completamente la mina. Le ambizioni ottomane di Erdogan entrano in collisione con i progetti di Israele. Tel Aviv, che pure ha bombardato con ogni mezzo la Siria e le forze iraniane che fiancheggiavano la dittatura, non è stata contenta della vittoria degli insorti. Preferiva un Assad debole, in balia degli eventi, perché questo permetteva allo Stato ebraico di fare ciò che meglio voleva. Adesso Netanyahu ha mandato i soldati ad occupare una zona cuscinetto e punta i piedi, nonostante le pressioni Usa, per una normalizzazione. Non si fida degli «islamici», alimenta l’irredentismo di una parte della comunità drusa. Altro tassello che balla. A sud continuano i traffici, clan potenti proseguono nel contrabbando di droghe sintetiche, cercano di mantenere libertà di manovra. Una minaccia molto sentita nella vicina Giordania. Al confine con il Libano non sono cessati i giri di armi, materiale bellico usato dagli alawiti, la componente che ha dominato da sempre la vita siriana e alla quale appartenevano gli Assad.
Una parte lotta per resistere alle epurazioni selvagge, destino condiviso anche da altre minoranze, ed una altra «sezione», invece, sogna una rivincita. Con il despota in esilio a Mosca sono alcuni gregari e familiari a ispirare una sorta di resistenza nella regione costiera. Ecco attacchi, agguati, reti clandestine. Uno dei tanti fuochi di settarismo. Nella politica «alta» si distingue il Cremlino. Vladimir Putin ha ospitato al Sharaa e sta trattando da mesi per conservare le due basi in Siria, con un colpo di spugna ha cancellato la partecipazione russa ai massacri. E i siriani hanno fatto finta di niente in quanto hanno bisogno di tutti. Donald Trump ha accolto il leader alla Casa Bianca, ne ha elogiato le doti, ha mantenuto diversi avamposti militari in Siria. Una presenza esposta a rischi: tre soldati sono rimasti feriti in un attacco sabato nella zona di Palmira L’Unione Europea, al solito lenta, si è accodata alle iniziative di supporto ma sempre nel segno della cautela. Si guarda, si aspetta, con i diplomatici che cercano di capire le linee di tendenza. Intanto in qualche angolo della Siria scalciano le cellule dello Stato Islamico, presenza parallela alle migliaia di mujaheddin con familiari chiusi nel campo di al Hol. Agli occhi dei seguaci del Califfo i nuovi dirigenti di Damasco sono dei traditori. E come tali vanno trattati.
