Il compagno Ay: «Vi racconto la mia Cina»

Settimana l’altra è intervenuto al Forum internazionale sui movimenti comunisti, tenutosi nella città cinese di Kunming. In aprile era stato a Pechino con altri quattro compagni, su invito del Partito comunista cinese. «Dovrei tornare in Cina dopo l’autunno, per un seminario accademico», annuncia Massimiliano Ay, segretario politico del Partito comunista.
Signor Ay, le hanno già dato la cittadinanza onoraria cinese?
«(ride) No. È da diversi anni che, come partito, abbiamo delle relazioni con il PC cinese, però è solo durante la pandemia che si sono intensificate, da quando abbiamo imparato a usare Zoom per comunicare tra di noi».
Che impressione le ha fatto la Cina?
«Spesso si tende a pensare che i Paesi socialisti siano caotici, poveri, disorganizzati... In Cina è vero il contrario. Si vede una modernità diffusa, anche nelle periferie. Stanno facendo un grande lavoro a livello di digitalizzazione, di offerta di servizi di base, come possono essere i presidi medici o anche solo le scuole».
Un paio di anni fa Xi Jinping ha annunciato di aver eliminato la povertà. È davvero così?
«Ci sono centinaia di milioni di persone che nel giro di pochi decenni sono uscite dalla miseria. Poi è vero che nelle zone rurali si vede ancora un po’ di povertà. Ma non la miseria nera, i mendicanti, i senzatetto che purtroppo si vedono nelle metropoli europee».
Le disuguaglianze ci sono ancora, già solo se si pensa che la Cina pullula di milionari e miliardari.
«Certo. Il governo ha permesso l’arricchimento di una parte della popolazione senza però dimenticare la necessità di ridistribuire la ricchezza. Credo che questo sia il dato politico importante».
Cioè?
«Non penso che la Cina possa essere definita un libero mercato. C’è davvero un forte controllo del partito in tutti gli ambiti, anche nell’industria privata. Quando qualcuno guadagna sopra una certa soglia, deve rendersi utile alla collettività. Questo significa che i miliardari non devono ostacolare il piano di sviluppo del Paese e addirittura devono accettare un riorientamento delle attività aziendali».


Lo Stato decide cosa devono fare le aziende?
«In ogni singola unità produttiva c’è una cellula di partito, con un segretario di partito, cui spetta l’ultima parola in caso di conflitto con il manager privato dell’azienda».
Quindi il vero capo è il segretario di partito?
«Di fatto sì. Lascia molta autonomia gestionale al manager, ma subentra lui se qualcosa non funziona come deve funzionare».
Il partito deve essere qualcosa di gigantesco.
«È un partito davvero capillare: stiamo parlando di un paese veramente immenso, come territorio e come popolazione. Il numero di membri del partito è di oltre 95 milioni».
Su una popolazione di 1,4 miliardi, sono pochi.
«Non è obbligatorio aderire al partito per fare carriera. E poi i criteri di adesione sono piuttosto rigidi. Bisogna superare degli esami di ammissione, bisogna dimostrare il proprio lavoro anche sporcandosi le mani nelle periferie».
I manager fanno tutti parte del partito?
«Non per forza, ma se sei nel partito significa che condividi un’idea di sviluppo socialista del Paese. Però ricordiamoci che nel parlamento cinese ci sono 8 partiti. C’è anche una buona parte di imprenditori che non sono comunisti ma fanno parte di quei partiti cosiddetti antifascisti che collaborano con il PCC».


Ci sono 8 partiti, ma non c’è un’opposizione.
«È un sistema pluripartitico molto diverso da quello cui siamo abituati noi. Da noi il pluripartitismo significa competizione tra i partiti, invece in Cina, come già nella vecchia DDR, i partiti non comunisti non sono in competizione ma hanno il compito di rappresentare gli interessi di fasce della popolazione legate alla società precedente o a ceti e etnie particolari. È una forma di democrazia che loro definiscono collaborativa».
Va tutto bene finché si va d’accordo con il potere.
«Io ho visto comunque molto dibattito interno. Anche parlando con le guide, che erano tutte del PCC, ho visto diversità di opinione soprattutto nella discussione fra ruolo dello Stato e mercato, che è un po’ il dibattito del momento».
Se andassi davanti al governo con un cartello «governo ladro», cosa mi succederebbe?
«(ride) Bisogna vedere cosa prevede il codice penale... In Cina ci sono manifestazioni di protesta, come recentemente per il COVID, ma di solito la cellula di partito locale interviene attivamente per trovare una soluzione».
Quindi le proteste vengono represse?
«Ci sono stati degli scioperi, ad esempio, e non sono stati repressi. È nell’interesse del partito risolvere le cose in modo conciliante. Dal nostro punto di vista c’è ancora un potenziale di sviluppo nella partecipazione democratica dei lavoratori, ma rispetto al passato c’è un netto miglioramento».
I cinesi lavorano ancora 15 ore al giorno?
«Io credo che le condizioni stiano migliorando, sebbene ci siano ancora probabilmente situazioni problematiche. Per tutti gli anni ‘90 la Cina ha ragionato prioritariamente in termini di aumento della produttività per sconfiggere il sottosviluppo, quindi non ha sempre dato troppa attenzione alle questioni sociali e ambientali. Ora, in particolare con Xi Jinping, c’è un’accentuazione molto forte sulle questioni ecologiche e un ritorno delle questioni sociali».


Cosa ha portato come souvenir?
«Un servizio da tè».
In che lingua avete comunicato?
«In italiano, il PCC ci ha fornito un ottimo servizio di traduzione, con 3 o 4 interpreti».
Vi hanno accolto con tutti gli onori.
«Ci hanno accolto secondo i protocolli delle relazioni tra partiti comunisti».
Avete parlato di guerra in Ucraina?
«Sì, loro non si sbottonano più di tanto, ma ci hanno detto di essere rimasti molto stupiti dalla svolta della Svizzera. Si attendevano di vedere un paese neutrale che potesse fungere da mediatore, invece la Svizzera si è schierata senza tanti complimenti. Questo li ha un po’ scombussolati, per come ci conoscevano».
Almeno c’eravate lì voi a rassicurarli che in Svizzera non tutti la pensano allo stesso modo.
«Sì, noi abbiamo proprio insistito nel dire ai vertici del partito che non tutta la popolazione svizzera è d’accordo con il governo, che c’è una forte volontà di salvaguardare la neutralità».


E su Taiwan, cosa dicono?
«Hanno ribadito che Taiwan è un problema interno, ma non ho notato toni più bellicosi che in altri momenti. Io credo che loro vogliano concludere questa vicenda, ma è nell’interesse di tutti che ciò avvenga per via pacifica».
Forse l’integrazione di Hong Kong non è un buon presagio.
«Se non erro, la presidente di Taiwan particolarmente ostile alla Cina ha rassegnato le dimissioni e questo è un auspicio per il dialogo. Io penso che vorranno giocare sulla via economica più che su quella militare. I cinesi insistono molto sulla necessità di creare un futuro condiviso. Poi è chiaro che se dovessero subire provocazioni...».
Una visita è una provocazione?
«Sì, se riconosci il principio di una sola Cina ma poi mandi personalità istituzionali a visitare Taiwan, è chiaro che loro la prendono come un’ingerenza negli affari interni».
Marco Chiesa ha fatto bene a non andarci?
«È stato molto intelligente. Benché sia il presidente del gruppo parlamentare Svizzera-Taiwan, ha capito che non era il momento. Peccato che i socialisti non siano stati così sensibili...».
Senza addentrarci in ulteriori polemiche, noi come svizzeri cosa possiamo imparare dalla Cina?
«Da un lato, da comunista svizzero, posso imparare che uno statalismo burocratico esagerato come in URSS non porta niente nello sviluppo del socialismo. Dall’altro lato, da non marxisti, la Cina permette di capire che ci può essere un’economia abbastanza aperta a livello imprenditoriale ma che si può nel contempo avere un ruolo forte dello Stato per ridistribuire meglio la ricchezza. Io credo che la Cina possa essere interessante. Non un modello da esportare, ma una realtà interessante da studiare».
Anche perché ogni Paese è una realtà a sé.
«Esatto, loro stessi non vogliono fare l’errore dei sovietici di interferire negli affari altrui».