L'analisi

La fragile tregua costruita sopra le crisi «comunicanti»

La prima liberazione di ostaggi in cambio di dozzine di prigionieri palestinesi ha restituito speranza ma non ha certo cambiato la cornice locale e internazionale
La prima liberazione di ostaggi. © ALAA BADARNEH
Guido Olimpio
26.01.2025 12:34

Una tregua appesa ad un filo. O meglio una pausa condizionata da contendenti che non smettono di rullare i tamburi di guerra e si preparano a «sei pazze settimane», come ha scritto un commentatore, per completare la seconda fase. 

La prima liberazione di ostaggi in cambio di dozzine di prigionieri palestinesi ha restituito speranza ma non ha certo cambiato la cornice locale e internazionale. Israele ha lanciato una nuova operazione nella Cisgiordania, un tentativo di contrastare le numerose cellule di militanti, ben organizzate e rifornite di armi. I servizi di sicurezza sospettano che i gruppi ricevano armi anche dall’esterno con una filiera via Giordania alimentata da elementi filo-iraniani. I guerriglieri hanno compiuto attacchi mentre i coloni ebrei hanno condotto nuove scorrerie.

L’altra notizia, sempre in casa israeliana, ha riguardato le dimissioni del Capo di Stato Maggiore Herz Halevi che si è assunto la responsabilità del fallimento del 7 ottobre. L’uscita, che non rappresenta una sorpresa, ha diverse interpretazioni. Erano noti i rapporti tempestosi con il premier Bibi Netanyahu, esistevano forti tensioni per la questione dell’arruolamento dei religiosi, è possibile che siano sorti contrasti sulle mosse future.

Il capo del governo, per tacitare l’ala destra sempre più in fermento e contraria al cessate il fuoco, ha affermato che l’offensiva riprenderà. Dichiarazioni politiche e tattiche che contengono aspetti di verità. L’esecutivo ha sempre sottolineato che l’azione militare sarebbe proseguita «fino alla vittoria» a Gaza e, a giudicare da quello che si è visto in questi giorni, il risultato non appare così vicino.

Dopo oltre un anno di campagna bellica nella Striscia lo schieramento palestinese - Hamas, Jihad, «brigate» minori, gang di trafficanti - è stato ridimensionato. I guerriglieri hanno perso migliaia di uomini, hanno dovuto adattarsi passando ad un’attività meno coordinata, sono stati privati dei leader storici. Tuttavia, non sono scomparsi, nei tunnel e nelle zone devastate dai bombardamenti ne restano tanti, sempre determinati a lottare. E soprattutto vogliono ribadire di essere in controllo usando alcuni elementi chiave: il negoziato sugli altri ostaggi, la gestione del territorio dove ora arrivano aiuti consistenti e della popolazione, la capacità di combattere.. Mohammed Sinwar, attuale capo a Gaza, e i suoi colleghi che vivono all’estero trasmettono un messaggio evidente alla diplomazia: siamo sempre noi gli interlocutori, non fatevi illusioni di trovare alternative.

Il segnale è reso necessario dai piani che girano da mesi sulla possibilità di «impiantare» nella Striscia l’Autorità palestinese guidata da Abu Mazen. Ma il progetto deve essere fattibile, non è come paracadutare scatoloni di viveri e coperte per i civili sopravvissuti alle distruzioni immani. Devi essere in grado di governare e serve un consenso, altrimenti rischi di essere un corpo estraneo, considerato uno strumento di altri. I mujaheddin non dispongono di mezzi per una battaglia in campo aperto contro i corazzati nemici, però hanno risorse per far deragliare qualsiasi iniziativa. Ci sono loro sul terreno e al momento - come hanno sbandierato - sono pronti a guidare la «rinascita».

Da seguire, poi, il quadrante regionale, con due attori fondamentali. Il primo è l’Iran. Teheran, esattamente come il pendolo della tregua, oscilla tra il desiderio di dialogo con l’Occidente (leggi UE) e le sparate dei pasdaran per smentire la debolezza. Questo mentre sono chiamati ad una missione impossibile: decifrare cosa farà Donald Trump nei loro confronti mentre continuano ad uscire tesi su un prossimo strike da parte di Israele. Il secondo è incarnato dagli Houthi yemeniti alleati dell’Iran ma abbastanza autonomi da poter ostacolare il traffico marittimo in Mar Rosso e prendere di mira lo Stato ebraico. Sono crisi «comunicanti», viaggiano su strade parallele e poi si incrociano aprendo variabili. A volte in Medio Oriente è un singolo episodio a innescare il cataclisma.

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