La Marchesa Casati e i suoi fantasmi: «Una donna oltre ogni limite»

Vanna Vinci, fumettista e illustratrice, con pochi tratti di matita, quasi gugliate di fili colorati, intarsia personaggi iconici in bellissime graphic novel come «La Casati. La Musa egoista» (Sergio Bonelli ed. 96 pagine). Si tratta di vere e proprie biografie per immagini con delle sceneggiature scritte da lei stessa con le quali ha omaggiato anche Tamara de Lempicka, Frida Khalo e Maria Callas. Ma ha scritto e disegnato anche storie vampiresche e di fantasmi come il suo lavoro «Gatti neri, cani bianchi» ora riproposto da Sergio Bonelli editore (304 pp.) e persino una storia extra seriale di Dylan Dog. In totale una trentina di opere .
Com’è iniziata la sua attività di fumettista?
«Disegnare è sempre stato il mio hobby sin da quando ero bambina. Anche se non devo lavorare, ma solo per far passare il tempo (occupazione che oggi è diventata un grandissimo lusso), disegno perché per me disegnare è il linguaggio con il quale mi esprimo. E per quanto mi riguarda, il fumetto è una parte piuttosto interessante, fantasiosa e curiosa della vita. Della mia, almeno».
Lei è disegnatrice e autrice, è difficile «reggere» i due ruoli professionali?
«Ho iniziato come autrice scrivendo e disegnando le mie storie. Ma se ho iniziato a fare i fumetti (diversamente avrei fatto la dentista) sicuramente lo devo a Luigi Bernardi della casa editrice Granata Press che mi ha promossa sul campo. Il primo libro aveva il tipo di narrazione di un romanzo a fumetti, non qualcosa di seriale. All’epoca si diceva fumetto d’autore, modo di dire che mi sembra del tutto scorretto, come se gli altri fumetti non fossero fatti da altrettanti bravi autori: tutti sono autori, compreso il colorista, e tutti hanno un’importanza autoriale. Sicuramente nel caso mio c’era un’autorialità totale perché io sceneggio e disegno tutte le mie storie: laboratorio completo di taglio e cucito».
Come sceglie i suoi soggetti? Che cosa la attrae maggiormente?
«Attrazione, magnetismo, infatuazione? È molto difficile spiegarlo. La Casati, per me è una specie di madrina, di Santa Patrona, tanto che se mi venisse chiesto di rifare una sua biografia, la rifarei di corsa. La prima volta che venni a contatto con la divina marchesa fu in una mostra del pittore Giovanni Boldini a Padova. All’ingresso c’era una sua foto ed è stato un colpo di fulmine. E nel percorso espositivo di fronte al suo ritratto con le piume di pavone, sono impazzita. Ho cercato tutto il materiale possibile su questa donna per anni senza alcuna intenzione di farne un libro. In queste ricerche mi spinge un interesse inspiegabile che solo in alcuni casi si concretizza in un lavoro: la verità è che affina il mio desiderio di infilarmi nella vita di persone molto lontane da me. I lavori su Tamara de Lempicka e Frida Khalo sono legati invece a delle mostre che le celebravano».
Le vicende della Marchesa Luisa Casati e la sua love story con D’Annunzio, le hanno suscitato un po’ di nostalgia nel rievocarle?
«Nessuna nostalgia per me anche perché con la Casati la nostalgia è improponibile perché lei, persona estremamente egoista, non aveva mai nostalgia di niente. Da parte mia, semmai c’è stata tanta meraviglia nello scoprirla come donna oltre ogni limite. Era fuori delle righe, senza schemi. Un personaggio con grandi negatività, geniale, folle e distante dalla realtà se vogliamo essere morali».
Nel suo libro, «Gatti neri, cani bianchi» parla di difficoltà giovanili e di fantasmi: uno specchio del nostro tempo confuso?
«Questo libro è stato pubblicato inizialmente in Belgio e Francia da Dargaud e fa parte di un trittico di storie che parlano del passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta. Le protagoniste sono delle giovani donne in un momento di spaesamento delle loro vite. Non sanno esattamente chi sono, cosa vogliono fare. Attraversano una confusa trasformazione. La protagonista principale ad un certo punto si trova ad abbandonare una solare terra di mare (è la Sardegna, ma potrebbe essere anche un’altra isola) per andare in una Parigi algida e fredda dove si perde completamente. Il filo rosso della storia all’interno di questa trilogia, però è l’irreale perché lei vede i fantasmi».
Che tipo di fantasmi?
«Ci sono fantasmi famosi, ma anche persone di due generazioni prima della sua, tutti parlano di tempi diversi dal tempo che sta vivendo la protagonista. La giovane entra nel loro mondo, ne viene avviluppata, ma non si verificano effetti speciali, perché alla fin fine sono personaggi molto palpabili direi. Ma non vorrei dire altro».
Ritiene il suo un lavoro artistico, o pensa anche lei come qualcuno dice, che il fumetto non ha molto a che fare con l’arte?
«Se intendiamo opere d’arte contemporanea, installazioni d’arte visiva o altro, sì, non credo abbiano a che vedere col fumetto, che è un’arte che si sviluppa in senso sequenziale, perché la sequenza è la grammatica del fumetto. Anche il cinema è un’arte basata sulla sequenza, ma si tratta di due sistemi creativi completamente diversi. Se penso all’arte figurativa in termini generici, mi viene in mente il Tintoretto che studiava le parti cinetiche dei suoi quadri, e molto della sua pittura può ricordare il movimento nel fumetto: ma il quadro è un’opera singola, ed è tutto in quell’opera. Nel fumetto non c’è una singola immagine. Nel fumetto predomina l’ossessione della sequenza nello svolgersi delle vignette e delle tavole».
Quanto le somigliano i suoi personaggi?
«Penso che tutto quello che viene fuori dalla testa di un fumettista, uno scrittore, uno sceneggiatore, sia in una certa misura il prodotto di un artista che dentro ha qualcosa da esprimere, svelare. Questo significa che io sono tutti i miei personaggi. Da quello eroico a quello più aberrante, io sono dentro i miei personaggi ai quali riconosco, belli o brutti, non fisicamente ma caratterialmente e moralmente, che in tutti loro c’è molto di me. Da qui a sovrapporre la mia vita a quella della marchesa Casati, Maria Callas o i vampiri, ce ne passa. Però la personalità dell’artista si riflette sempre nelle storie che racconta».
La quadrilogia «Viaggio Notturno» ambientata a Bologna, fa pensare che lei abbia interesse per l’occultismo come la città felsinea, che pare abbia una lunga tradizione in materia?
«Bologna è sempre stata considerata una città magica, e sono numerosi gli indizi che lo confermano: c’è una famosa pietra magica al Museo Medievale, «la Pietra di Bologna», con una scritta che Carl Gustav Jung ritenne una «rappresentazione dell’irrazionale»; c’è un palazzo con scritte criptiche in centro; nella Basilica di San Petronio dal 1685 c’è una linea dorata che attraversa il pavimento della navata sinistra. È la meridiana più lunga del mondo che segna con precisione il passaggio delle stagioni. Vivendo a Bologna tra questi misteri è stato facile ambientarvi una serie di vampiri».
Perché?
«Bologna è una città bellissima da disegnare perché ha delle proporzioni sempre a misura umana. Ci sono molti portici, stradelli, vicoli che sono interessanti da utilizzare e disegnare, strade particolari molte affollate in certi casi, completamente deserte e oscure in altri momenti. Qui ho visto il mio vampiro, ma non si pensi a Dracula con tutto il rispetto per Bran Stoker. I miei vampiri sono personaggi molto particolari, molto bolognesi, che si muovono con nonchalance per la città facendo finta di niente. Ma ci sono anche i sotterranei di Bologna, una sorta di città fantasma che non tutti conoscono. E poi ci sono chilometri di canali che attraversano tutta la città (visibili e visitabili in pochissima parte) che contengono il passato di un tempo oscuro, ma proprio per questo affascinante».