L'intervista

«Ora torno a fare il senatore, e punto a rimanere a Berna a lungo»

Marco Chiesa affronta diversi temi, dalle Comunali al suo incarico di presidente UDC, che è terminato ieri
©Gabriele Putzu
Andrea Stern
Andrea Stern
24.03.2024 12:35

Il presidente di partito è come un lampione. Sopra deve sempre brillare, anche quando sotto ci sono i cani che gli urinano addosso. «Non è certo un’immagine romantica, però è vero che fare il presidente di partito non è una passeggiata», ammette Marco Chiesa, che proprio ieri, sabato, ha concluso il suo quadriennio alla testa dell’UDC svizzera.

Signor Chiesa, si sente più leggero?
«Sì, torno al solo ruolo di consigliere agli Stati e quindi a occuparmi a Berna esclusivamente del Ticino. Come presidente di partito devi rappresentare le decisioni dei delegati e avere attitudini diverse. Caratterialmente mi si addice di più quella da chambre de réflexion. Sono più un costruttore di ponti che un tribuno».

Un centrista più che un UDC.
«No, la linea e i valori sono chiari. Ma mi si riconosce il pregio di riuscire a far parlare le persone e a trovare una visione comune. Questo mi ha aiutato molto all’interno del gruppo UDC, in cui ci sono tanti maschi alfa».

In Svizzera tedesca la vedevano come un presidente ad interim, un tappabuchi, in attesa che si trovasse lo svizzero tedesco giusto.
«No, non ho mai avuto questa sensazione, non l’ho mai vissuta così. La presidenza latina è stata una scelta voluta, che ha dimostrato che l’UDC non è un partito Zurigo-centrico e ha portato anche i suoi frutti a livello elettorale».

Facile, con l’immigrazione alle stelle.
«La verità è che quando ho assunto la presidenza tutti dicevano che l’UDC non aveva più argomenti, che non riusciva più a mobilitare, che era un partito in declino. Abbiamo visto che le cose sono andate diversamente. Non mi sto arrogando il merito del nostro successo ma è un dato di fatto che siamo cresciuti. Poi c’è sempre una certa ingenerosità che bisogna prendere in considerazione e saper digerire».

Il famoso lampione.
«Un ex presidente di partito, oggi consigliere federale, dice che il suo lavoro attuale è quasi più semplice. Non tanto per i temi o per l’esposizione, ma perché il presidente di partito deve preparare tutto da solo, deve esserci sempre e ovunque, in tutte le sezioni».

Chissà quanti chilometri ha fatto.
«Sì, Albert Rösti aveva il vantaggio di essere bernese, quindi al centro della Svizzera. Per me che sono ticinese, non di madre lingua svizzera tedesca, è stata una grande sfida».

Che consiglio ha dato al suo successore?
«Marcel Dettling è stato con me nella direzione del partito, non ha bisogno di consigli da parte mia. Io quello che cerco sempre di fare è di portare la visione ticinese e latina, che può essere diversa sui temi sociali o quelli legati ai cantoni di frontiera, visto che viviamo una situazione diversa».

L’hanno ascoltata?
«Sì, abbiamo sempre avuto discussioni animate ma costruttive. Alla fine si usciva con una linea e questa veniva mantenuta da tutti, ciò che non è scontato, perché bastano un paio di insoddisfatti per scatenare la stampa e tradire la fiducia interna. A me non è mai successo».

C’è stata una volta in cui il partito ha diramato un comunicato per smentire la sua apertura alla vaccinazione obbligatoria del personale sanitario.
«A dire la verità quel comunicato l’ho fatto io, con Peter Keller. Perché col giornalista io mi ero semplicemente chiesto come mai, invece di vaccinare tutti, non si pensasse alla vaccinazione del personale sanitario. Ma poi sul giornale era uscita diversamente».

I giornalisti travisano sempre.
«A volte ho trovato la volontà da parte dei giornalisti di creare delle polemiche, anche quando non c’erano. Ma su questo aspetto noi dell’UDC siamo stati solidi e sono convinto che lo saremo anche in futuro. Perché noi parliamo di valori e quando hai dei valori li difendi, altrimenti diventi una banderuola».

Non mi sono mai candidato per avere uno scontro con Michele Foletti, ma per sostenere una lista cui è venuta a mancare una persona carismatica come Marco Borradori

Lei dice che i giornalisti creano ad arte dei casi. Come quello dell’incidente di Gobbi?
«Fino ad oggi io non vedo alcun elemento che mi faccia gridare allo scandalo. La spiegazione fornita dal consigliere di Stato mi sembra assolutamente plausibile».

Non crede che in questa vicenda ci possa essere qualcuno, non per forza Gobbi, che ha sbagliato?
«Non vorrei alimentare la cultura del sospetto quando non ci sono gli elementi per farlo».

Però queste voci potrebbero rovinare il piano che La Regione chiama «il triangolo delle Bermuda».
«La vita riserva sempre sorprese, fare piani non serve a nulla. Io sono diventato presidente del primo partito svizzero senza che me lo fossi mai immaginato. D’altra parte c’è chi fa piani per diventare consigliere federale e fallisce. Nella vita è giusto avere delle motivazioni, ma in politica non porta a nulla cercare di inseguire degli obiettivi in maniera spasmodica».

Quindi non sono da escludere sorprese?
«Aggiungerei che nella vita nulla accade per caso, è fatta di appuntamenti e se vuoi prendere quel treno che sta passando devi andare alla stazione. Non si fermerà davanti a casa tua. Sinceramente però questo valzer appartiene, soprattutto in questo momento, solo alla sfera giornalistica».

Però il rimescolamento delle carte - lei a Lugano, Gobbi a Berna, Marchesi a Bellinzona - farebbe contenti tutti tranne forse Foletti.
«Con Michele Foletti discutiamo spesso, non mi sono mai candidato per avere uno scontro con lui ma per sostenere una lista cui è venuta a mancare una persona carismatica come Marco Borradori».

È vero che è stato proprio Foletti a suggerirle di candidarsi a Lugano?
«Io gli ho chiesto cosa ne pensava e lui mi ha detto di farlo. Penso che condividiamo lo stesso attaccamento a Lugano».

E Tiziano Galeazzi cosa le ha detto?
«Lui sta facendo un’ottima campagna che deve innanzitutto vederci ribadire i tre seggi e questo lo apprezzo molto».

Perché invece lei non fa campagna? Sembra quasi voler dire «votatemi, ma non troppo».
«Anche questa è un’illazione giornalistica. Mi sembra chiaro che presentare una candidatura significa chiedere la fiducia dei cittadini. Io non ho alcuna remora a chiedere la fiducia dei luganesi. Piuttosto mi sembra che tutta la campagna sia un po’ piatta...».

In giro si vedono tanti manifesti di Foletti, Galeazzi o Quadri. Ma non i suoi.
«Io arrivo da una campagna molto recente e intensa. Appariranno anche i miei».

Sta continuando il corso di tedesco online?
«Sì, ormai punto a diventare proficiency (ride)».

Sogna già in tedesco?
«Sognare no, però ogni tanto mi vengono le parole in tedesco invece che in italiano».

Allora intende restare a Berna ancora a lungo?
«Sicuramente. Siamo a inizio legislatura, c’è tanto da fare, un accordo istituzionale da combattere e una Svizzera da 10 milioni da evitare».