Serie TV

Dahmer: quando una storia terribile viene raccontata così bene

La miniserie Neflix di dieci episodi narra del Cannibale di Milwaukee, Jeffrey Dahmer, e lo fa magistralmente – Ma arriva la critica della famiglia di una delle vittime
© Wikipedia / Netflix
Jenny Covelli
26.09.2022 14:09

Violenza sessuale, necrofilia, assassinio, cannibalismo, smembramento, riesumazione di cadaveri. Questi e altri crimini sono attribuiti a Jeffrey Dahmer, uno dei più efferati serial killer degli Stati Uniti, noto anche con i soprannomi di Cannibale di Milwaukee o il Mostro di Milwaukee e responsabile tra il 1978 e il 1991 della morte di 17 tra ragazzi e uomini. Perché lo stiamo (ri)nominando a distanza di oltre trent'anni? Perché Netflix ha lanciato la miniserie Dahmer: dieci episodi in cui Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee, American Horror StoryAmerican Crime Story) e Ian Brennan (GleeScream Queens, The Politician) raccontano con una fiction una delle più terribili storie mai accadute.

Chi è (stato) Jeffrey Dahmer

Nato nel 1960 a Milwaukee, Wisconsin, come primogenito di un (allora) studente di Chimica e di un'istruttrice di telescriventi. Quando aveva sei anni, si trasferì con la famiglia a Doylestown, in Ohio. E iniziò a mostrare un carattere chiuso e apatico. Il padre era spesso assente a causa degli impegni accademici, la madre soffriva di depressione. Quando aveva solo otto anni incominciò a collezionare resti di animali morti che usava seppellire nel bosco situato dietro casa. Il padre, orgoglioso di quella che credeva essere una semplice curiosità scientifica del figlio, gli mostrò come vivisezionare le carcasse e sbiancare gli scheletri. Con la pubertà cominciarono le fantasie sessuali deviate. All'età di 16 anni iniziarono i problemi di alcolismo. Capì di essere gay ma non lo dichiarò ai genitori. A 18 anni, dopo la separazione dei genitori, arrivò il primo omicidio: violenza sessuale, assassinio, smembramento, carne sciolta nell'acido, ossa frantumate. Le vittime di Dahmer furono in totale 17: tutti ragazzi giovanissimi e di sesso maschile. Quando l'ultima vittima prescelta riuscì a scappare e ad avvertire la polizia, Jeffrey Dahmer fu catturato, processato e condannato, nel 1992, alla pena dell'ergastolo con un totale di 957 anni di prigione. In carcere venne aggredito più volte, fino a quella che gli fu fatale: il 28 novembre 1994 morì sotto il colpo dell'asta di un manubrio che un carcerato schizofrenico aveva sottratto in palestra. Aveva 34 anni.

Il merito del protagonista

Che siate o meno appassionati di crime, che vi facciano più o meno impressione i dettagli macabri di eventi realmente accaduti, Dahmer è sicuramente da vedere. Uno dei più bei prodotti del genere proposti negli ultimi anni sul piccolo schermo. Una storia brutale, morbosa, cruda, narrata passando non dal sangue ma dalla mente. Evan Peters interpreta Jeffrey Dahmer (Jeff) in modo magistrale. Ci porta letteralmente nella testa del serial killer. Gli autori si prendono tutto il tempo necessario, anche per dettagli che potrebbero sembrare minimi. Il tempo è dilatato, la voce del protagonista è calma, le sue azioni ben studiate. Sembra quasi di entrare in quella mente fragilissima, di captare l'omosessualità repressa di Jeff e quel terrore di restare da solo. La solitudine che si scontra e contemporaneamente si amalgama con l'attrazione sessuale per le membra umane. La serie non rende nulla affascinante, affatto. Così come non vittimizza il mostro per quando accaduto nel suo passato e non chiede allo spettatore di empatizzare.

Il punto di vista delle vittime

Dahmer è una serie che torna a dare valore alla lentezza, alla descrizione e all'evoluzione dei personaggi. Gli autori non hanno paura di prendersi il tempo necessario per mostrare ciò che vogliono, per consentire al pubblico di entrare nel racconto. Senza la frenesia delle azioni, ma con i protagonisti che occupano la storia. Nel racconto c'è un'indagine introspettiva che accompagna la ricostruzione dei fatti. La mente occupa gli spazi e il tempo si estende, si dilata in base ai bisogni, seguendo lo scorrere della narrazione. Sono i personaggi a riferire la loro storia, quello che succede loro, come evolvono. Con una mente sempre sul filo del rasoio, tra scelte immorali e atrocità. Tutto sul volto di Evan Peters. Come inquietare il pubblico senza (quasi) ricorrere alle scene di violenza.

La serie porta lo spettatore nell’abisso dell’assassino, nelle vite delle vittime, ma anche nei fallimenti dell'autorità e (forse) della società. Come è possibile che Jeffrey Dahmer sia riuscito ad agire senza che nessuno lo fermasse? C'erano i campanelli d’allarme, i sospetti, l'odore terrificante e le continue segnalazioni alla polizia da parte dei vicini. Tanto che quando quell'ultimo ragazzo riesce a fuggire, la sensazione universale è una sola: il sollievo. Restano le domande e i tanti, troppi rimorsi. Oltre a resti umani, foto di cadaveri, avvisi di scomparsa mai revocati.

La critica della famiglia di una delle vittime

Saranno anche trascorsi più di trent'anni, ma certe ferite non si rimarginano mai. E rivivere un trauma tramite un film, o sapere che milioni di persone lo seguiranno con morbosa curiosità, può suscitare parecchie emozioni. Anche negative. Su Twitter ha fatto la sua comparsa Eric, che si presenza come il cugino di Errol Lindsey, una delle vittime di Jeffrey Dahmer. «Non dico a nessuno cosa guardare, so che gli show crime sono seguitissimi in questo momento, ma se siete davvero curiosi delle vittime, la mia famiglia (quella di Isbell) è incazzata per questo show - scrive -. Si tratta di ritraumatizzare ancora e ancora, e per cosa? Di quanti film/serie/documentari abbiamo bisogno?». Eric fa riferimento anche a una scena presente nell'ultima puntata quando, durante il processo, la sorella maggiore di Errol Lindsey, Isbell, ebbe una furiosa sfuriata. «Il modo in cui è stata ricreata mia cugina - scrive ancora Eric - che ha un crollo emotivo in tribunale di fronte all’uomo che ha torturato e ucciso suo fratello è feroce». E pure a Instagram, Eric ha affidato un post: «No, non guarderò la serie. No, la mia famiglia non è felice. RIP a mio cugino Errol Lindsey e a tutte le altre vittime».

In questo articolo: