L’Intervista

«Giulia mi ha regalato emozioni che cerco di offrire al pubblico»

A tu per tu con la regista Laura Kaehr — Reduce dal successo ottenuto lo scorso autunno allo Zurich Film Festival, dove si è aggiudicato il Premio del pubblico, giunge ora nelle nostre sale Becoming Giulia, il primo lungometraggio documentario della regista locarnese
© First Hand Films
Antonio Mariotti
15.04.2023 09:00

Reduce dal successo ottenuto lo scorso autunno allo Zurich Film Festival, dove si è aggiudicato il Premio del pubblico, giunge ora nelle nostre sale Becoming Giulia, il primo lungometraggio documentario della regista locarnese Laura Kaehr. Un film che segue sull’arco di molti mesi la storia di Giulia Tonetti, ballerina classica che sceglie di diventare madre e di continuare a danzare ad alto livello.

Quando si girano documentari come questo, in cui gli imprevisti sono all’ordine del giorno, il rischio è di ritrovarsi con una massa di materiale al montaggio. Com’è andata nel caso di Becoming Giulia? 
«Prima di tutto, devo dire che per raggiungere un tale livello di intimità con la protagonista ci sono voluti più di tre anni di riprese e così mi sono ritrovata al montaggio con più di 350 ore di materiale. Devo ammettere, però, che a me piace girare tanto perché amo questo aspetto del cinema-verità e ho capito molto presto che anche Giulia ama questo modo di lavorare, perché ci tiene a essere Giulia Tonetti, a essere vera. Non mi ha quasi mai imposto dei paletti e così tutto è successo gradualmente. Non avrai immagini molto intime durante il primo mese di riprese, ma si capisce da subito quanto potrai ottenere da una persona che intraprende un viaggio simile insieme a te. All’inizio contavo di girare il film tra il 2019 e il 2020 e già mi sembrava tantissimo, ma poi abbiamo continuato fino al 2022 e sono felice di averlo fatto».

C’è stato un momento preciso in cui ha capito che il film era finito? 
«Riflettendo sul percorso personale di Giulia e su quello che stavo cercando di raccontare ho sentito che ci avvicinavamo a una fine organica rispetto soprattutto alle conclusioni a cui lei è giunta. Un approccio diverso sarebbe stato impossibile, in particolare con una protagonista così forte».

Quando ha iniziato non aveva nessuna idea sull’esito del percorso di Giulia: sarebbe potuto essere un film su un fallimento... 
«Sì nel documentario non si sa mai la direzione che prenderanno i personaggi e bisogna essere un po’ Nostradamus: pensare alle diverse strade possibili e farsi una drammaturgia in testa. È come vivere una soap opera live. Bisogna sempre essere pronti a cambiare in un attimo i piani pensati a tavolino. Ci vuole una reazione immediata. Ci è successo soprattutto per le scene girate a casa di Giulia: io volevo delle scene banali, di vita quotidiana, e invece c’era sempre qualcosa che cambiava la situazione. E questo fa sì che nel film ci siano molti momenti veri, totalmente sinceri, grazie alla fiducia che Giulia credo sentisse nei miei confronti».

Lei è stata ballerina classica professionista: con questo film vuole anche smontare i cliché che si ritrovano spesso nei film sulla danza? 
«Sì, capisco che c’è bisogno di drammatizzare e che se sei all’esterno di questo mondo certe cose non le capirai mai, ma avendo fatto questo percorso nella danza dall’infanzia al professionismo volevo aprire una finestra su qualcosa che il pubblico non ha mai visto prima. Più che le difficoltà fisiche di Giulia dopo la maternità, m’interessava mostrare gli aspetti più profondi legati all’identità, al fatto che vive in un mondo che non prende in considerazione la famiglia. Le ballerine dell’Opera di Zurigo hanno spettacoli tutte le sere, ripetizioni fino a tardi, non si può lavorare a metà tempo e si ha sì e no un giorno libero a settimana. Quindi questa sua battaglia interiore parla a molte donne. Me per prima perché quando ho iniziato a filmarla mi chiedevo a mia volta come avrei potuto fare questo film se avessi avuto una famiglia. Nel mondo del cinema molte mie colleghe con figli hanno smesso di girare film. E ciò mi fa dire che continuerò a lavorare su temi che vivo, che sento fortemente. Pur non essendo madre, grazie a Becoming Giulia ho potuto esplorare una questione fondamentale. Si tratta di un arricchimento umano che ora ritrovo quando incontro il pubblico, perché molti, sia donne sia uomini, sentono questo problema e le loro reazioni mi scaldano il cuore».

Lei e Giulia siete quasi coetanee, avete vissuto esperienze simili nello stesso ambiente: è riuscita a mantenere una certa distanza per raccontare la sua storia? 
«No, questa distanza non esiste più nel mio modo di lavorare (ride). Tutte le volte che vorrei smettere di filmare, che mi viene da piangere e sto male per la tanta intimità raggiunta con i miei personaggi, invece devo continuare. L’emozione che il pubblico prova in questi momenti del film, io l’ho provata cento volte di più mentre filmavo Giulia. Questa è la lezione registica più grande che ho ricevuto da questo film, perché adesso so esattamente le emozioni di cui ho bisogno mentre sto girando. Se quelle emozioni non ci sono vuol dire che non ci siamo ancora e bisogna andare avanti».

Sul palcoscenico Giulia si ritrova a interpretare personaggi che corrispondono sempre meno alla sua identità, soprattutto dopo che è diventata madre. La danza classica è sempre più distante dal mondo reale delle ballerine? 
«Assolutamente. È vero che a inizio carriera è bello interpretare questi ruoli da ingenue perché hai 17 o 18 anni e ti vanno bene una Giulietta, una Gisèlle o le varie principesse delle favole, o anche un cigno. In fondo sono tutti racconti di crescita. Poi maturando artisticamente, soprattutto le ballerine che diventano delle prime ballerine cominciano a riflettere: cos’altro posso interpretare nella mia carriera ora che queste storie non mi corrispondono più? Questi balletti sono stati tutti coreografati da uomini e si sono perpetuati da questo mondo maschile che forse non si è mai posto la domanda della rappresentazione della donna nell’ambito della danza classica. L’incontro tra Giulia e la coreografa britannica Cathy Marston (che da settembre dirigerà lo Zurich Ballet: n.d.r.) l’ho proposto io. Mi aveva colpito subito il suo lavoro: mette in scene delle eroine letterarie dalle personalità molto complesse, di mezza età. Quando ho visto che a Giulia stava un po’ stretto il suo repertorio ho pensato di farle incontrare e da subito si sono trovate in perfetta sintonia».