Lo Squalo e la paura primordiale di Spielberg, cinquant'anni dopo

Cinquant'anni fa, il 20 giugno del 1975, nelle sale americane usciva Jaws. Lo Squalo, in italiano, titolo che, ancora oggi e al netto della libera reinterpretazione dei traduttori, incute un certo timore. E, al contempo, chiede rispetto. Logico, verrebbe da dire. A cominciare dalla colonna sonora firmata da John Williams, che l'Economist ha splendidamente riassunto così: DUM-dum DUM-dum DUM-dum, parliamo di un film che ha terrorizzato generazioni di bagnanti, ha rivoluzionato l’industria cinematografica e ha definito — forse per sempre — il concetto stesso di blockbuster. Ma che cos’era e che cos'è, davvero, Lo Squalo?
Fra tensione e assenza
Tratto dall’omonimo romanzo di Peter Benchley, Lo Squalo è un thriller che sfrutta magistralmente la tensione e l’assenza. Lo squalo — oggi lo sappiamo — si vede poco. Anzi, pochissimo. Non per scelta estetica, ma per necessità tecnica: il mostro meccanico, soprannominato Bruce, funzionava a malapena. Spielberg, all’epoca un giovanissimo regista con pochi crediti importanti alle spalle, ma se vi capita andate a recuperare Duel del 1971, fu costretto a reinventare il racconto: il nemico diventava invisibile, e proprio per questo ancora più spaventoso. La citata colonna sonora di John Williams, due note che oggi bastano a evocare un panico primordiale, fece il resto.
La nascita di un blockbuster
Prima de Lo Squalo, Hollywood non conosceva né puntava sull’estate come stagione cinematografica. Il film uscì a giugno con una strategia allora inedita: massiccia promozione, distribuzione capillare, passaggi in tv e su giornali, merchandising. Incassò oltre 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di appena 9 milioni, divenendo per un breve periodo il film con il maggior incasso di sempre. Più che un film, un evento. Da lì in avanti, infatti, ogni estate avrebbe avuto il suo predatore da box office. E ogni bagnante, in mare, avrebbe affrontato l'acqua con sospetto.
Una lezione di regia e di narrazione
A colpire, a cinquant’anni di distanza, è quanto Lo Squalo sia ancora efficace. È un film di tensione, non di mostri. Racconta l’invisibile, lavora sull’attesa, gioca con l’inquadratura soggettiva del predatore per capovolgere il punto di vista. E nel frattempo esplora la comunità di Amity Island, i suoi conflitti di potere, il peso della negazione collettiva, la tensione fra interessi economici e sicurezza pubblica. Sotto la superficie, c’è una lettura sociale che non smette di essere attuale. All'epoca, Spielberg seppe intercettare il disincanto post-Watergate puntando su un eroe-non-eroe come Brody, interpretato da Roy Scheider. Infilando, qua e là, riferimenti a Hiroshima e richiami al capitano Achab di Moby Dick.
Nella cultura di massa
Quante volte abbiamo sentito la battuta «ci serve una barca più grossa»? Quanti riferimenti, parodie, citazioni? Dai Simpson a Stranger Things, da Sharknado alle settimane tematiche su National Geographic, lo squalo è diventato archetipo. Nessuno, tuttavia, ha saputo replicare l’eleganza e la tensione del film originale, che resta un caso quasi irripetibile di capolavoro nato dal caos. Gli stessi sequel non hanno mai mantenuto la promessa del primo capitolo.
La minaccia? Oggi è l'uomo
Cinquant’anni dopo, Lo Squalo resta un monumento del cinema. Ma oggi la vera minaccia non viene dalle profondità marine: è l’uomo a mettere in pericolo lo squalo, e non il contrario. Ogni anno, secondo le stime del WWF, vengono uccisi circa 80 milioni di squali, spesso per la sola pinna, in una pratica brutale e insostenibile. Molte specie sono ora in declino, alcune a rischio critico. La popolazione globale, scrive al riguardo l'Economist, è crollata del 70%. Paradossalmente, l’animale che Spielberg aveva trasformato in una creatura mitologica — feroce, inarrestabile, onnipresente — è oggi una vittima silenziosa dell’eccesso umano. Se nel 1975 lo squalo era il simbolo della paura primordiale, oggi è il promemoria vivente (sempre più raro) di un ecosistema che vacilla.
Cinquant’anni dopo, forse dovremmo rivedere la sceneggiatura: non più l’uomo contro il mostro, ma l’uomo chiamato a salvare ciò che ha frainteso. Perché la natura non fa paura: si difende soltanto.