L'intervista

Reinhold Messner: «L’arte della montagna è (anche) non morire»

A tu per tu con l'alpinista, esploratore e scrittore che, domenica, racconterà al Palazzo dei Congressi di Lugano la tragica spedizione del 1970 nella quale perse il fratello Günther
©EXPA/JOHANN GRODER
Michele Castiglioni
10.05.2024 06:00

Alla soglia degli 80 anni, Reinhold Messner, è uno dei personaggi più importanti che l’alpinismo abbia mai avuto. Ha scosso il modo di fare (e pensare) l’alpinismo più volte negli anni - basti pensare a tutti gli 8.000 saliti senza ossigeno quando tutti pensavano che fosse impossibile (proprio in questi giorni ricorre il 46. anniversario della sua prima conquista dell’Everest senza ossigeno, in compagnia di Peter Habeler). E dopo molte imprese straordinarie (anche al di fuori dell’alpinismo), si è occupato di ambiente e di conservazione degli habitat di montagna fondando il Messner Mountain Museum. Lo abbiamo incontrato alla vigilia del suo spettacolo Nanga Parbat. La mia montagna del destino, che domenica al Palazzo dei Congressi di Lugano, racconterà la tragica spedizione del 1970 nella quale perse il fratello Günther.

Partiamo dalla serata luganese e dallo spettacolo Nanga Parbat. La mia montagna del destino: portarlo sul palco è ancora doloroso o è una catarsi per tutto quello che è successo 54 anni fa?
«No, per me è una possibilità per raccontare l’esperienza più drammatica della mia vita, e nel contempo un’occasione per ricordare anche momenti positivi perché non parlo solo della tragedia di mio fratello, ma parlo anche della storia - ultracentenaria - di quella montagna. E, naturalmente nello spettacolo racconto - perché il mio ruolo oggi è quello di raccontare. L’alpinismo è composto di due attività: il fare e il raccontare. Senza il racconto l’alpinismo non sarebbe vivo».

Come vede l’alpinismo di oggi, lei che ha contribuito tante volte a cambiare la percezione di questa attività per amore della montagna?
 «L’alpinismo negli ultimi 30 anni è cambiato totalmente. L’alpinismo che una volta era “l’alpinismo della conquista” - un secolo fa si andava per “conquistare” le cime (i primi approcci alle cime himalayane, per esempio, datano negli anni Venti del Novecento) è poi diventato l’“alpinismo della difficoltà”: l’interesse è passatodalla conquista della cima, a quella della parete. Poi, ancora, è arrivato “L’alpinismo della rinuncia”, quello che ho portato avanti anch’io: andare con il minimo di equipaggiamento e di supporto. Oggi i giovani che arrampicano vanno in palestra, anche naturale, magari molto difficile, ma piccola, ai margini della montagna vera e propria. E lì praticano quello che a tutti gli effetti è diventato uno sport. La maggior parte dei giovani appassionati non percorre più le vie che io facevo nella mia gioventù (Dolomiti, Svizzera, Caucaso, Ande, Himalaya). Questo perché adesso la gente può entrare in un’agenzia viaggi e comperarsi la salita sull’Everest. Oggi in un mese gli sherpa costruiscono una via che consente a enormi quantità di persone di salire lassù quasi come se facesse una passeggiata sulle Dolomiti. In questo stesso momento sull’Everest ci sono almeno 500 persone che hanno pagato anche un milione di dollari per essere portati sulla cima. Mentre per me l’alpinismo non è mai stato uno sport, per me è la tensione che esiste tra la natura umana e quella della montagna».

Quali sono allora le sfide che deve affrontare l’alpinismo oggi?
«Ci sono molti giovani davvero bravi oggi, però pochi escono dai percorsi “conosciuti” per avventurarsi dove gli altri non vanno. Dove c’è pericolo. Dove l’alpinismo è ancora quello che era, sapendo che la morte è una possibilità. In fondo l’arte della montagna è (anche) non morire: se io escludo questa possibilità non è più alpinismo, è un’altra cosa, è uno sport. Non si può vedere l’alpinismo come una gara, una sfida a tempo, perché la montagna ha i suoi tempi che ti obbliga a rispettare».

L’esplorazione da tempo non è più al centro dell’attenzione per gli alpinisti. Non fa più parte della nostra fantasia

Non è più tempo di esplorazioni quindi?
«L’esplorazione da tempo non è più al centro dell’attenzione per gli alpinisti. Non fa più parte della nostra fantasia, visto che puoi ormai vedere le immagini satellitari di qualsiasi posto nel mondo in qualsiasi momento. L’esplorazione ora è nel nostro intimo, è una questione personale».

Lei è sempre stato molto attivo nella tutela dell’ambiente, in politica e con la sua Fondazione: cos’ha da insegnare la montagna oggi riguardo all’ambiente? E l’alpinismo può avere un ruolo nella sua tutela?
«Ha un ruolo sicuramente nel far capire quali sono le trasformazioni in corso. L’ambiente è cambiato radicalmente negli ultimi 200 anni da quando abbiamo cominciato ad utilizzare l’energia fossile: siccome in montagna le cose “si sentono prima”, il caldo sale e modifica le regioni in quota prima di quanto non lo faccia in città, quindi c’è una maggiore evidenza. La montagna può insegnarci il fatto che siamo nulla di fronte ad essa. Quando andiamo veramente a “toccarla con mano”, andando in alta quota, sentendo la mancanza di ossigeno, vedendo l’orizzonte che “cresce” man mano che si sale, si acutizza la percezione di cosa siamo su questa terra e se abbiamo fatto parecchie esperienze in questo senso, sentendo la fatica e la paura che accompagnano i momenti drammatici, allora sì che cominciamo a rispettare e poi ad amare la montagna. Oggi chi la ama è perché ha vissuto dei momenti molto forti - positivi o negativi - e quindi la conosce ed è in grado di difenderla».

So che ha un nuovo libro in uscita a settembre, Gegenwind: di che cosa parla?
«È una biografia, nella quale racconto la mia vita basandomi sul fatto che sono sempre stato ostacolato, nei miei progetti, da forze esterne. Per fare un esempio, un giornale locale è riuscito a bloccare il progetto del museo a Bolzano (MMM Firmian, a Castel Firmiano, n.d.r.) per dieci anni, facendo di tutto a livello politico e di informazione. Oppure nella prima spedizione in Himalaya, (quella, appunto al Nanga Parbat, n.d.r.), il capospedizione fece di tutto per contrastare la mia versione dei fatti. Tutto questo di volta in volta per motivi politici, per il mio essere spesso controcorrente, per l’invidia che le mie imprese generavano nell’ambiente. Non ultima quella di aver creato il più importante museo sull’alpinismo al mondo (il Messner Mountain Museum, n.d.r.)».

Lei ha vissuto una vita nella quale ha compiuto imprese di ogni tipo, oltre a quelle alpinistiche, tra cui quella di entrare in politica e di battersi attivamente per l’ambiente: c’è qualcosa che cambierebbe se potesse tornare indietro?
«Direi proprio di no: ho fatto questa vita, una vita difficile non solo per me, ma anche per le persone attorno a me, a partire dalla mia famiglia e ciò nonostante è la vita che ho scelto di fare e accetto serenamente anche le eventuali critiche che mi vengono rivolte».