Attallah, il coach cosmopolita: «Ho affrontato tante leggende, ma Michael Jordan l’ho solo sfiorato»

Nel 1964, sui campi di via Cabione a Massagno, nasceva la SAM Basket. Nello stesso anno, ad Alessandria d’Egitto, veniva alla luce Alain Attallah, attuale coach della prima squadra biancorossa. Lo abbiamo incontrato alla palestra di Nosedo per farci raccontare la sua storia.
Signor Attallah, possiamo dire che lei è venuto al mondo direttamente su un campo da basket?
«Praticamente sì. Mio papà è stato giocatore e allenatore, mia mamma è stata cestista e mia sorella pure. I miei genitori mi hanno lasciato scegliere quale sport praticare, a condizione che fosse il basket (ride, ndr.). Fortunatamente mi piaceva. Negli anni, ho fatto della mia passione un lavoro. Anche nel tempo libero, guardo basket e leggo di basket».
Com’è stato crescere nell’Egitto degli anni Sessanta e Settanta?
«Alessandria, dove vivevo, era una città cosmopolita, ricca di comunità straniere. Mia madre era di origini greche, la mia nonna paterna pure, ma c’erano anche numerose famiglie italiane e di altri Paesi del Mediterraneo. Quasi tutti parlavano due o tre lingue. Io ho frequentato la scuola cattolica dei fratelli lasalliani, il Collège Saint-Marc, la cui squadra di basket giocava nel campionato egiziano degli anni ’50».
Il basket non ha però distolto la sua attenzione dagli studi.
«Mi sono laureato in diritto e ho esercitato la professione di avvocato per un paio d’anni. In seguito, sono andato a lavorare in un’accademia internazionale, dove avevo più tempo da dedicare allo sport. Sono stato fortunato, perché il presidente dell’istituto era anche presidente del Comitato olimpico egiziano. I miei numerosi viaggi con la Nazionale non erano dunque un problema».
Tra il 1980 e il 1990 ha rappresentato la pallacanestro egiziana ai massimi livelli. Che anni sono stati per il vostro movimento?
«Era molto difficile qualificarsi ai grandi eventi, perché il continente africano disponeva di un solo posto. Solitamente la lotta era tra noi e l’Angola. Vincendo la Coppa d’Africa del 1983 ad Alessandria, staccammo il biglietto per i Giochi di Los Angeles del 1984. In carriera disputai un’altra Olimpiade, quella del 1988 a Seul, e un Mondiale in Argentina, nel 1990. Senza dimenticare i Giochi del Mediterraneo e le Universiadi. Affrontare grandi campioni che prima vedevo solo in televisione mi ha spesso lasciato a bocca aperta».
Ci parli di Los Angeles 1984.
«Rispetto a un Mondiale, durante il quale si è concentrati unicamente sulla competizione, le Olimpiadi sono un festival dello sport in cui è facile lasciarsi meravigliare da tutto ciò che gira intorno al campo: lo spirito di fratellanza, le diverse culture a confronto, gli atleti di altre discipline».
L’oro lo vinsero gli USA di un giovanissimo Michael Jordan, appena draftato dai Chicago Bulls.
«Noi eravamo inseriti nell’altro girone, quindi non posso raccontare di aver affrontato quello che sarebbe poi diventato un mito universale. L’ho solo sfiorato. A Los Angeles affrontammo però la Jugoslavia di Drazen Petrovic, l’Italia di Dino Meneghin e il Brasile di Oscar Schmidt. Mica male, no? L’occasione di sfidare gli USA si presentò quattro anni dopo a Seul. La star era David Robinson, ma quella squadra si accontentò del bronzo. Fu l’ultima volta che gli americani si presentarono ai Giochi con una selezione universitaria...».
A Barcellona 1992 sbarcò infatti il Dream Team di Jordan, Magic, Bird e tante altre superstar NBA. Lei si era già ritirato dalla Nazionale e comunque l’Egitto non si qualificò. Che effetto le fece vedere quella mitica squadra debuttare proprio contro l’Angola?
«È il cerchio della vita: sarebbe stato fantastico condividere il parquet con quei fenomeni, ma non ho rimpianti. Ho debuttato in Nazionale a 18 anni, girando il mondo e vivendo emozioni indescrivibili».
Due anni dopo aver lasciato la Nazionale, appese le scarpette al chiodo. Non era ancora trentenne. Come mai questa scelta?
«Quando uscivo di casa per andare agli allenamenti, non avevo più la motivazione necessaria. Oggi può sembrare strano, le carriere si sono allungate grazie ai progressi nella medicina sportiva, nell’alimentazione, nel mental coaching. Alla SAM alleno Dusan Mladjan, che a 39 anni è ancora uno dei migliori del campionato...».
Dal campo alla panchina: è stato un passaggio naturale?
«Seguivo già dei corsi di formazione in parallelo. Poi, due anni dopo aver smesso di giocare, ho iniziato ad allenare a livello giovanile, diventando anche assistente della nazionale egiziana. In seguito, con la famiglia, mi sono trasferito a Copenaghen, dove ho guidato diverse squadre, compresa quella di mia figlia Nathalie. Allenare delle ragazze non è stato difficile, allenare mia figlia sì. Portavamo le discussioni a casa. Ora lei non gioca più. Ha finito il secondo Master ad Harvard, dove è stata anche assistente. Marc, il suo gemello, lavora per l’ONU ad Atene».
In generale, lei è più severo come padre o come allenatore?
«Come allenatore. Esigo sempre un certo livello di disciplina. Allo stesso tempo, però, credo di avere un buon feeling nella relazione coach-giocatore. Avendo giocato, capisco bene la psicologia dei ragazzi. So che a volte è normale sentirsi stanchi e frustrati, ma poi bisogna saper lasciar andare in fretta queste sensazioni».
Come giocatore, lei era già un allenatore in campo?
«Allenatore no, ma leader sì. Oggi cerco di trasmettere questa caratteristica ai miei ragazzi: un leader non può accontentarsi di fare le cose in modo impeccabile, deve far sì che gli altri facciano altrettanto».
Alla SAM dispone di leader così?
«I fratelli Mladjan, con la loro esperienza, sono molto rispettati, in campo e nello spogliatoio. Nikola Stevanovic è invece un buon leader vocale, uno che sa farsi sentire. Due dei nostri americani sono giovani rookie, ma il terzo, Eric Adams, sa dare il buon esempio. C’è una bella chimica, lo spogliatoio è sano. Quando si recluta un giocatore ci si affida ai video, ma è fondamentale anche informarsi sulla persona e sulla sua attitudine, dentro e fuori dal campo. Come? Beh, non abbiamo il lusso di mandare degli scout in giro per il mondo, ma c’è sempre qualcuno, che conosce qualcuno, che conosce qualcuno... A volte serve anche un po’ di fortuna, soprattutto con i giovani americani che approdano per la prima volta in Europa. Ne ricordo uno che rientrò a casa per Natale e non tornò mai più».
Lei come arrivò in Svizzera?
«Al seguito di mia moglie, che lavora per l’ONU e che nel 2017 venne trasferita a Ginevra. La stagione era già iniziata, trovare una squadra era difficile, così accettai un incarico con la U18 del Nyon, il cui coach era purtroppo deceduto. La stagione seguente il club mi affidò la prima squadra, che militava in LNB. Era previsto di salire in A nel giro di due o tre anni, ma la promozione arrivò subito. Non mi prendo grandi meriti: la squadra era oggettivamente troppo forte per la lega cadetta. Con il Nyon restai altri due anni, compresa la stagione interrotta dalla COVID-19. Casa mia è ancora lì, a Tanney, tra Nyon e Ginevra. Il comune più vicino è Mies, dove ha sede la FIBA, la federazione internazionale di basket».
Nel 2022-23 passò al Ginevra, dove venne esonerato in marzo.
«La pressione era molto più alta rispetto a Nyon e in questi contesti, dopo tre sconfitte di fila, paga sempre l’allenatore. È una cosa che accetto, fa parte del nostro mestiere».
Dopo una stagione 2024-25 con gli Starwings, ecco il trasferimento a Massagno.
«Una delle cose che apprezzo di più, nel mio lavoro, è formare i giovani. Ed è stato proprio il desiderio della SAM di ripartire dai giovani a interessarmi. Metà squadra è formata da U18 che fanno su e giù con il campionato giovanile, dove sono allenati da Dusan Mladjan. Io e lui abbiamo la stessa etica di lavoro e questo facilita le cose. Non regaliamo minuti di gioco ai giovani. Se li devono meritare. Dopo due mesi e mezzo, posso già fare pieno affidamento su due di loro, Karabasic e Trifkovic, che stanno in campo anche nei minuti decisivi. Pure Matic, Manzambi e Cassano hanno avuto spazio. Abbiamo vinto solo tre partite, ma restiamo fedeli alla nostra filosofia. Personalmente, sono contento dell’impegno e dello sviluppo dei ragazzi».
Cosa può dirci, invece, dello sviluppo del basket africano?
«Rispetto ai miei tempi, ci sono tanti africani nelle massime competizioni: NBA, Eurolega, NCAA. È più facile anche per gli allenatori, ai quali basta una connessione internet per seguire un corso e ottenere un diploma. Il mondo del basket è diventato più piccolo e accessibile. È una ricchezza».
