Calcio

«La mia forza? Una tenacia grande quanto i miei piedi»

L'attaccante del Bellinzona Sergio Cortelezzi, fermo ai box da due mesi a causa di una frattura al piede, scalpita per poter tornare in campo - Domani sera i granata saranno di scena a Neuchâtel
Il sudamericano, il cui rientro è stimato per fine mese, potrebbe anche fare ritorno in campo con un leggero anticipo. © CdT/Gabriele Putzu
Nicola Martinetti
06.10.2022 19:51

Il telefono squilla due volte. Poi, dall’altro capo, il «Pata» ci risponde con decisione. Del resto la determinazione è la benzina che ha alimentato i suoi ultimi due mesi, tra una seduta di fisioterapia e un allenamento in palestra. L’attesa, a tratti anche spasmodica, è però ormai agli sgoccioli. E al ritorno in campo manca sempre meno.

Sergio, innanzitutto come stai?

«Sto bene. Sì, le cose vanno decisamente meglio. Lavoro sodo e i risultati sono confortanti. Di più, mi danno speranza. C’è infatti la possibilità che io possa accorciare un pochino i tempi di recupero, tornando in campo prima del previsto».

Hai già una data cerchiata in rosso sul calendario?

«Il 30 ottobre, ma è soltanto una stima. Nei prossimi giorni ho in programma una visita molto importante con il medico che mi sta seguendo. Sarà lui a decidere come gestire i prossimi passi, in una direzione o nell’altra. È però già certo che mi rivedrete sul terreno da gioco prima dei Mondiali e la conseguente pausa invernale».

Torniamo per un attimo allo scorso 30 luglio. Al 26’ della sfida casalinga contro lo Stade Losanna-Ouchy la tua stagione prende una piega inattesa e dolorosa. Un fugace istante che nemmeno le telecamere, in presa diretta, riescono a cogliere...

«Effettivamente non mi stavano inquadrando quando mi sono messo a terra. Ma in realtà l’infortunio l’avevo rimediato cinque o sei minuti prima. E la dinamica è davvero assurda. Saltando per andare a colpire di testa un pallone, ho messo il piede d’appoggio sopra la scarpetta di un giocatore vodese. Il risultato: un pestone ai suoi danni che paradossalmente ha finito col procurarmi una frattura al quinto metatarso del piede sinistro. Ho provato a stringere i denti e proseguire, ma il dolore era semplicemente incontenibile e ho dovuto chiedere il cambio».

Ti chiamano il «Pata», che in spagnolo significa piede ma più tendente alla zampa d’animale, perché calzi il 45. Forse in questo caso qualche misura in meno ti avrebbe risparmiato gli attuali grattacapi..

«È vero, ci ho pensato anch’io (ride, ndr). Ma sono uno che prende con filosofia determinate dinamiche. L’anno scorso, ad esempio, mi sono lussato la caviglia e in fase di recupero ho adottato la medesima linea di pensiero. Stringendo: non posso influenzare ciò su cui non ho controllo. E non sempre il quadro generale appare chiaro fin da subito. Bisogna accettarlo. Prima ci si riesce, prima si vive serenamente anche la riabilitazione. Come ho scritto anche sui miei profili social il giorno dell’operazione, le battaglie più intense sono anche quelle che ti soddisfano maggiormente in caso di successo».

Avevi però iniziato alla grande la stagione, siglando tre reti nelle prime tre partite. Al netto della tempra mentale, è altresì umano avvertire una certa frustrazione, no?

«Questo sicuramente. Anche perché nel calcio, dinamico e volubile di suo, già quando si sta bene è difficile trovare una certa costanza di rendimento. Ma anche qui preferisco guardare uno dei pochi aspetti positivi:quantomeno è successo subito. Significa che avrò modo di tornare protagonista nel corso della stagione».

In attesa di tornare in campo, in queste settimane hai potuto godere dell’appoggio di diversi affetti...

«Esatto, penso innanzitutto alla mia famiglia, ma anche agli amici e soprattutto alla squadra. Sì, i miei compagni non mi hanno mai dimenticato. Tutti hanno visto il bel gesto al termine del match contro il Vaduz, quando hanno esibito la maglietta con gli auguri rivolti al sottoscritto. Ma di momenti simili, anche lontano dai riflettori, ce ne sono stati parecchi. Del resto quella della compattezza, del sostegno, è un’impronta che noi leader abbiamo cercato di dare fin dal primo giorno all’interno dello spogliatoio. Allargando gli orizzonti, ogni persona che ha pensato a me negli ultimi due mesi ha alleggerito a suo modo il carico da sopportare».

Chi forse ti ha messo in secondo piano, tra risultati generalmente positivi e vicende legate alla panchina, è la piazza granata. Anche nel bene, visto che appunto le cose giravano pure in tua assenza...

«Effettivamente ho un pochino avvertito questa tendenza. Ed è in realtà un bene, preferisco che sia andata così perché come dici tu significa che la squadra ha proseguito positivamente il suo cammino in campionato. Per chi è costretto a mordere il freno lontano dal campo, non c’è niente di più bello che poter lavorare serenamente, sapendo che i propri compagni se la stanno cavando alla grande nei panni dei protagonisti».

Poi però si perdono due partite contro Wil e Sciaffusa, ed ecco che rispunta il nome di Cortelezzi...

«È la classica dinamica del “cambiare quando le cose non vanno bene”, tanto cara al mondo dello sport. Mi fa sorridere, francamente. Come squadra sappiamo che in questi frangenti ciò che più conta è l’equilibrio, saper gestire le emozioni senza eccessi, nel bene e nel male. La stagione resta lunga e complicata, l’importante è non perdere terreno nei confronti di chi sta in vetta, per potersela giocare fino alla fine. Tutti conoscono il nostro obiettivo, ma la promozione non la si centra a dicembre».

A proposito del salto di categoria, tu l’avevi conquistato con il Lugano nel 2015, ma non hai mai assaporato la Super League in prima persona. Quanto brami di arrivarci da protagonista?

«Tantissimo, e ho deciso di rimanere a Bellinzona perché intendo farlo vestendo la maglia granata. Nel 2015, quando ero poco più che ventenne, ho vissuto una bella annata con i bianconeri. Condita dal trionfo in campionato e - a livello personale - una decina di reti. Ma ho scelto di rimanere in Challenge League, accasandomi altrove, perché ritenevo fosse la cosa più giusta per il mio sviluppo come calciatore. Poi è vero che spesso, da lì in avanti, ho vissuto delle buone stagioni, ma non sufficientemente brillanti da riaprirmi le porte del massimo campionato elvetico. Anche perché spesso, da attaccante mobile e dinamico, sono stato impiegato nel ruolo di centravanti d’area di rigore. Mi sono adattato perché volevo giocare, ma in quel modo non sono state esaltate le mie caratteristiche».

In quest’ottica, cosa ti aspetti dal rapporto con Baldo Raineri? In fondo, quando ti sei infortunato, in panchina c’era ancora David Sesa...

«Baldo l’ho sempre affrontato da avversario, ma sono molto positivo e fiducioso in vista di questa nuova avventura. Tante cose sono cambiate, la squadra stessa - con tutti gli innesti giunti dopo il mio infortunio - ha un volto differente. Mi ci vorrà un pochino di tempo per adattarmi, anche agli schemi del mister. Ma a lui piace il calcio offensivo, dunque sono certo che andremo d’accordo (ride, ndr)».

In attesa di scoprire che risultati darà il vostro «matrimonio», venerdì è in agenda una trasferta alla Maladière contro il derelitto Neuchâtel Xamax, fanalino di coda della lega cadetta e in totale crisi. Un’occasione d’oro per rilanciarvi dopo due k.o. consecutivi, no?

«Sulla carta sì, ma posso assicurarvi che sarà una sfida difficilissima. Loro sono disperatamente alla ricerca della prima vittoria stagionale e faranno di tutto per ottenerla. Oltretutto il match si disputerà su un campo sintetico, che nasconde sempre delle insidie. Purtroppo al contrario dell’ultimo impegno in trasferta a Wil, questa volta sarò costretto a rimanere in Ticino per proseguire con la fisioterapia. Ma la sostanza cambierà poco: sia in panchina sia davanti al televisore soffro tremendamente nel vedere le partite al di fuori del rettangolo verde».

Un’ultima domanda: a inizio stagione eri stato nominato capitano, oggi la fascia la porta invece Dragan Mihajlovic. Cosa accadrà una volta che tornerai in campo?

«Presumo che tornerò a ricoprire quel ruolo, che per me era e rimane un grande onore. Ma onestamente non ne ho ancora parlato con Dragan, anche perché - al netto appunto dell’importanza dell’incarico - non è una questione così impellente. In fondo ciò che faccio dentro e fuori dal campo non dipende da una fascia al braccio. E lo stesso, ne sono certo, vale anche per Dragan».