Isacco Dotti a tutto tondo: «Quando in Bolivia il divertimento era un pallone»

Tra le note liete di questa stagione, alla Valascia, c’è pure lui: Isacco Dotti. Un gradito ritorno, quello del ragazzo di Mairengo. Che si era affacciato una prima volta sul massimo campionato addirittura sette stagioni fa. Sedici partite in due inverni, sotto Constantine prima e Pelletier poi. Quindi l’allora promettente difensore era sparito dai radar. Per cinque anni: tre in Prima Lega e due in serie B. Finché Luca Cereda è tornato a bussare alla sua porta: 7 partite negli ultimi playout. Poi, quest’inverno, già 33 presenze, 3 assist, e molta solidità. E ieri, il rinnovo.
AMBRÌ «Caparbio». Sceglie quest’aggettivo, Luca Cereda, per sintetizzare una delle maggiori qualità del numero 7. Lo definisce un giocatore molto solido e disciplinato. E quando si parla di carattere, il coach non ha dubbi. «Isacco è molto caparbio, e lo si vede in quello che ha fatto nella sua carriera. Ha fatto due passi indietro, per poi rifarne due in avanti. Quest’attitudine, lui la porta anche sul ghiaccio. E incarna bene i valori del nostro club». Parole al miele insomma, per Isacco Dotti, che dal canto suo – ci confessa – non si trova a suo agio con gli autoritratti. Ci pensa ancora un po’ il suo allenatore, allora. «Conosco Isacco sin dalla categoria Mini. Rappresenta un esempio perché non ha mai mollato. Una bella storia, la sua così come quella di altri suoi compagni oggi ad Ambrì». Isacco Dotti, 26 anni compiuti pochi giorni fa, preferisce probabilmente che a parlare siano le sue prestazioni in pista. Tra gli ultimi a lasciare il ghiaccio finito l’allenamento del lunedì, si concede comunque di buon grado per una lunga chiacchierata a 360 gradi.
Isacco, dopo una lunga gavetta, eccoti titolare nell’Ambrì.
«Ci è voluto un po’ di ambientamento, all’inizio, ma con il passare dei giorni comincio a sentirmi veramente al mio posto, a questi livelli. In coppia con Plastino mi trovo ottimamente, cerco di imparare da lui: sa gestire bene il disco e porta un buon contributo offensivo».
Hai sempre creduto che un giorno saresti riuscito a ritagliarti uno spazio fisso in NL?
«Devo essere onesto: c’è stato un momento, alla mia terza stagione in Prima Lega con il Biasca, in cui davvero non pensavo più alla serie A. Non è che avessi perso le speranze, ma più che altro avevo accettato com’erano andate le cose. Lì ho iniziato a giocare veramente per il piacere di farlo. E il resto è arrivato in modo progressivo. Non ho mai smesso di lavorare. Volevo migliorare, non tanto per arrivare chissà dove, quanto per riuscire meglio in quello che facevo».
Due passi indietro, poi due avanti, fino al triennale firmato ieri. È davvero successo tutto in modo molto graduale.
«Sì, in tal senso non è stata una sorpresa trovarmi dove sono ora. Ricordo anche che ad un certo punto, lo scorso inverno, ho proprio sentito la voglia di compiere un ulteriore passo. Poi si è fatto avanti Cereda, che mi ha proposto di terminare la stagione con l’Ambrì. L’ho vista come una possibilità per dare una svolta alla mia carriera, e si direbbe che così è stato».
Luca Cereda è una figura importante, per la tua carriera.
«In effetti, Luca mi allenava già quand’ero ragazzo. Anzi, lui ha incominciato ad allenare proprio quando io ero nella categoria Mini. Siamo cresciuti più o meno insieme, anche in seguito a Biasca. Chiaramente è più lui ad avere plasmato me, che non il contrario (ride, ndr)».
Il tuo primo coach in NL è stato però un altro...
«Esatto. Le mie prime apparizioni in prima squadra, ad Ambrì, le feci sotto Constantine. Quindi arrivò Serge Pelletier. Allora ero però ancora un ragazzo. Ero meno maturo. E poi credo che il club avesse una filosofia un po’ diversa rispetto ad oggi. Ad ogni modo il passo da fare, dagli juniori alla NLA, era importante. Probabilmente non sono riuscito a gestirlo al meglio. Pazienza, le cose sono andate in questo modo, e va bene lo stesso».
Quanto hanno contato le tappe in Prima Lega e NLB?
«Gli anni in Prima Lega mi hanno fatto molto piacere: lì ho trovato davvero il piacere di giocare a hockey, malgrado i sacrifici. Non bisogna dimenticare che si tratta di una categoria che richiede molto, pur essendo amatoriale. Chi lavora o, come me all’epoca, chi studia deve imparare a gestire la propria vita, tra impegni extra-hockeistici e sport».
Ti sei formato alla SUPSI quale ingegnere civile. Oggi lavori part-time in questo settore: riesci a conciliare questo impegno con l’hockey?
«Sì. Benché io abbia da poco ridotto la mia percentuale dal 50 al 30%, devo dire che avere anche un’altra attività è qualche cosa che mi aiuta. Mi permette di staccare ogni tanto la mente dall’hockey. Nella mia prima stagione ad Ambrì, in effetti, non sapevo come gestire i pomeriggi liberi. Non sono tipo da passare le ore davanti alla tivù. Preferisco tenere impegnata la testa. E ringrazio il mio datore di lavoro, che mi viene molto incontro».
Un percorso simile al tuo l’ha avuto tuo fratello Zaccheo. Andate d’accordo?
«Sì, molto. Ci sentiamo regolarmente, ci auguriamo sempre buon match prima di ogni partita. Lui la scorsa primavera ha strappato un contratto ad Ajoie. Certo, dopo aver giocato e vissuto per tanti anni con lui al mio fianco, ora mi fa strano non vederlo più così spesso. Sento la sua mancanza perché siamo molto legati. Ma sono felice per lui».
A proposito di famiglia, la vostra storia è strettamente legata all’America latina.
«In effetti, i miei genitori negli anni Novanta hanno avviato un progetto di aiuto allo sviluppo in Bolivia. Io stesso sono nato laggiù, e vi sono rimasto sino a quando avevo più o meno un anno. Poi, con la mia famiglia, ci siamo tornati a più riprese, per seguire da vicino i lavori della ONG dei miei genitori. Della Bolivia serbo dei bellissimi ricordi. Pur non avendo legami di sangue con le persone che vivono in quel Paese, le considero come parte della mia famiglia».
Torni spesso in Bolivia?
«Non proprio. Ci sono stato un’ultima volta nel 2011. È passato parecchio tempo. Nonostante ciò, e malgrado la distanza e gli anni che passano, i rapporti di amicizia con queste persone sono sempre molto forti. Adesso anche da loro c’è Facebook e Whatsapp, per cui è semplice rimanere in contatto».
Laggiù non si gioca a hockey però...
«Non che io sappia (ride, ndr). Hanno degli altipiani a 4000 metri sopra il livello del mare, ma fa caldo pure lì, di giorno. La vedo dura. Per contro è molto diffuso il gioco del calcio. Ho diversi bei ricordi...».
Ti va di raccontarcene uno?
«Ero bambino, e con la famiglia siamo tornati in Bolivia per un periodo lungo, sei mesi. Frequentavo anche l’asilo, laggiù, dove ho festeggiato il mio sesto compleanno. Non giocavo ancora a hockey. In compenso, in Bolivia, si giocava a pallone ovunque. In qualsiasi villaggio ci capitasse di andare, trovavamo sempre una porta fatta con tre pezzi di legno legati assieme. Quante partite, abbiamo fatto! Un vero divertimento».
Dal calcio all’hockey, è bene non dimenticare che resta pur sempre un gioco.
«È vero, la Bolivia mi aiuta ogni tanto a relativizzare i nostri problemi quotidiani. Quello che facciamo è un privilegio. In fondo siamo qui a correre dietro a un disco, mentre laggiù qualcuno fatica ad arrivare a fine giornata. Bisogna però saper staccare le due cose, altrimenti diventa difficile convivere con la propria coscienza. Quando sei giù, vivi come loro. Qui invece ti adatti ai nostri standard. In ogni caso, mi rendo conto della fortuna che ho».
Dai ricordi d’infanzia al la stretta attualità. Stasera andate in trasferta a Berna.
«Abbiamo voglia di rifarci. Domenica, all’indomani della sconfitta contro lo Zurigo, giravano ancora le scatole per com’è andata. Certo, a Berna sarà dura. Stavolta dovremo essere pronti sin dall’inizio. Contro di loro comunque in stagione abbiamo già disputato delle ottime partite. C’è rispetto, ma anche tanta fiducia».