L’epoca d’oro dei documentari sportivi tra autenticità, limiti e compromessi
Netflix ha da poco sfornato una serie sul Tour de France 2023. Amazon Prime ha risposto con l’atteso racconto degli ultimi dodici giorni di carriera di Roger Federer, uscito ieri. Nell’epoca d’oro del documentario sportivo, le piattaforme di streaming si danno battaglia. E anche la Tv tradizionale fa la sua parte. Le telecamere ci portano dietro le quinte, al seguito di ciclisti, tennisti, piloti. Abbattono le pareti degli spogliatoi, «spiano» le grandi squadre di calcio, di football, di hockey. Anche in Svizzera. Negli scorsi anni, MySports ha realizzato tre serie su altrettanti club di National League: Davos, Langnau e Ambrì Piotta. È proprio il responsabile di questi tre progetti, Sven Schoch, a raccontarci il fenomeno dal punto di vista del realizzatore. «I documentari sportivi ci sono sempre stati», premette. «La novità degli ultimi anni sono le serie che raccontano le squadre dall’interno, ma anche in questo ambito non mancano i precedenti. Il primo che mi viene in mente è Les yeux dans les Bleus, sulla Francia che vinse i Mondiali di calcio del 1998. La SRF ne dedicò uno al Basilea di Christian Gross e uno alla Nazionale di Köbi Kuhn. Anche l’ultimo Mondiale dei rossocrociati, nel 2022 in Qatar, è stato raccontato dall’interno dalla nostra televisione pubblica». Secondo Schoch, è però utile un primo distinguo: «A volte sono le federazioni o i singoli atleti a prendere l’iniziativa per un documentario; altre volte è il realizzatore a proporre la sua idea. Nel primo caso, si tratta spesso di un’operazione di public relation».
Ruoli e regole
Fin dove può spingersi il documentarista? Quali sono i limiti? «È assurdo pensare di avere totale libertà», afferma Sven Schoch. «Quando sento dire che un regista ha potuto fare tutto ciò che voleva, io non gli credo. Faccio il giornalista dal 1996 e so perfettamente che nessuna organizzazione ti affiderà mai le chiavi di casa. È sempre una questione di compromessi. Quando presento il mio progetto a un club, metto subito in chiaro che io non sono un PR e che il documentario deve essere autentico. Allo stesso tempo, non intendo mettermi al centro della scena. Sono un osservatore. I protagonisti devono essere giocatori, allenatori e dirigenti. Ci sono ruoli e regole da rispettare. Se alcune situazioni dovessero uscire dallo spogliatoio, cambierebbero le dinamiche del gruppo. E un film-maker non vuole di certo condizionare l’aspetto sportivo».
«Spegni quella telecamera!»
Tra frustrazione, rabbia, delusione e privacy, capita, nei documentari sportivi, che un protagonista chieda, seccato, di spegnere la telecamera. «Se mi dicono di non filmare, io non filmo», assicura Schoch. «In una squadra hai 20 o 30 personalità diverse e non tutti apprezzano la presenza della telecamera. Chi si sente a disagio, può dirlo. E noi ci ritiriamo. È anche una questione di fiducia». A volte, però, vale la pena lottare per far valere le proprie idee: «Come realizzatore, spiego sempre in anticipo perché ho bisogno di determinate immagini. Ad esempio, quando abbiamo girato la serie sui Langnau Tigers, eravamo nella stagione della pandemia. Al centro del documentario non c’era dunque lo sport, ma l’esistenza stessa del club. Ho passato ore a discutere con il presidente e il responsabile delle finanze per fargli capire che le telecamere dovevano essere presenti quando avrebbero parlato di questioni economiche. Non mi interessavano le cifre, i salari, bensì le discussioni, la tensione, le preoccupazioni. Volevo documentare tutto ciò, perché quello era il tema del progetto. Ripeto: non sono un PR incaricato di mostrare solo le cose belle. Non è facile far passare questo messaggio. I dirigenti hanno idee diverse. È una battaglia».
Tra script e realtà
Sceneggiatura e realtà: chi detta i ritmi? «Quando inizio un progetto – spiega Schoch – ho già in testa uno script e dei protagonisti, ma nulla di concreto. A Langnau, come detto, volevo raccontare una storia di sopravvivenza. Ad Ambrì, invece, ci siamo interrogati sul passaggio dalla vecchia Valascia alla nuova arena: il club leventinese, così legato al suo passato, sarebbe riuscito a entrare nella modernità conservando il suo spirito originale? Questi erano i miei soggetti. Ma poi bisogna confrontarsi con la realtà. Non puoi ignorarla, fossilizzandoti sulle tue idee iniziali. Devi essere flessibile, pronto a cambiare strada. Mentre giravamo la serie sull’Ambrì Piotta, ad esempio, la squadra è stata protagonista di una rimonta incredibile, qualificandosi ai pre-playoff all’ultima giornata. È stato un bonus. Ha aggiunto emozioni e ha cambiato il copione».
Testimoni e narratori
Testimone passivo o narratore? Qual è il ruolo del documentarista? «Dipende», racconta Sven Schoch. «Quando i registi di Netflix o Amazon entrano in uno spogliatoio, spesso ci trascorrono ogni giorno. Con MySports, invece, siamo stati ad Ambrì solo 13 o 14 volte. È una grande differenza. Il nostro è stato un lavoro più giornalistico, svolto prima e durante la lavorazione: si parte da un’idea, si osserva, si riflette su come potrebbe svilupparsi lo scenario nelle settimane seguenti. È diverso da filmare quotidianamente per poi magari chinarsi sul materiale raccolto solo al termine della stagione. Alcuni documentari sportivi presenti sulle principali piattaforme, non mi hanno convinto del tutto per la mancanza di una storia. Più che altro, ho visto un flusso di immagini esclusive e parole, senza un vero racconto».
Vittoria e sconfitta
A livello drammaturgico, è meglio un trionfo o un fallimento? «La sconfitta, spesso, ci mostra qualcosa in più», afferma il nostro interlocutore. «Certo, se l’Ambrì avesse vinto il campionato, sarebbe stato un racconto pazzesco. In un club che vince sempre, invece, viene a mancare qualcosa sul piano drammatico. La sconfitta porta delusione e rabbia, fa perdere il controllo, mostra atteggiamenti più naturali e meno razionali. Quando abbiamo prodotto la serie sul Langnau, la squadra perdeva sempre, forse anche troppo, ma questo ha fatto emergere un’atmosfera molto malinconica, triste, che era perfetta per raccontare quella stagione orribile, vissuta senza i tifosi sugli spalti. La vittoria è bellissima, ci sono i sorrisi e gli abbracci. Ma è un po’ sempre la stessa cosa».
Oltre il tifo
La sfida, quando si racconta un club o un atleta da vicino, è quella di offrire una storia universale, che sappia coinvolgere anche i tifosi avversari e i meno appassionati: «Un giorno – conclude Schoch – un fan del Lugano mi ha detto di aver apprezzato la serie sull’Ambrì. Lo considero un bel complimento. Se sei autentico, il pubblico lo capisce. Non bisogna glorificare chi ti ospita. Vanno mostrati anche i momenti difficili, le arrabbiature, le incomprensioni. Siamo osservatori neutrali, non tifosi. Ci interessa il sole, ma anche la pioggia».