La rivincita del Mancio per riconciliarsi con l’Azzurro

Stasera all’Olimpico di Roma, contro la Turchia, partono l’Europeo dell’Italia e la grande sfida di Roberto Mancini. Per lui allenare la Nazionale è un’emozione particolarissima, visto che come calciatore Mancini è stato il più forte italiano di tutti i tempi, insieme a Valentino Mazzola -ma lì fu colpa prima della guerra e poi della scomparsa di Mazzola a Superga nel 1949 -, a non aver giocato nemmeno un minuto ad un Mondiale.
La Juventus
In tanti conoscono il suo grande amore per la Juventus, durato per tutta l’adolescenza, periodo chiuso con il passaggio da diciottenne dal Bologna alla Sampdoria di Paolo Mantovani, che sarebbe diventata la squadra del suo cuore. Il Mancini bambino nella sua cameretta aveva il poster di Roberto Bettega, ma per le circostanze della vita lui è stato spesso detestato dai tifosi bianconeri, sia come avversario in campo sia come allenatore, soprattutto nelle sue sei stagioni all’Inter.
Il Milan
Avversario storico del Mancini giocatore è stato il Milan di Sacchi e soprattutto di Capello - con il quale il litigio a bordocampo era assicurato -, ma la storia sarebbe potuta essere diversa, perché a 13 anni aveva superato il provino per giocare nelle giovanili rossonere. Grande gioia e attesa della lettera di convocazione. Mai arrivata, perché l’impiegato del Milan la spedì all’indirizzo sbagliato, quello della Real Jesi, mentre Mancini giocava nell’Aurora Jesi. Smaltita la delusione fu preso dal Bologna, con cui esordì in Serie A a 17 anni, valorizzato da quel Tarcisio Burgnich da poco scomparso.
L’Inter
I più giovani associano l’immagine di Mancini al club neroazzurro, guidato per quattro stagioni (tre scudetti vinti) con Massimo Moratti presidente e per quasi due con Thohir. Di certo all’Inter ha consolidato la sua fama di allenatore non particolarmente creativo, ma molto bravo nel gestire i talenti dal punto di vista umano. Il suo giocatore icona rimarrà per sempre Mario Balotelli, lanciato diciassettenne e protetto dalle critiche, portato al Manchester City e addirittura anche in Nazionale all’inizio di questo ciclo, prima di arrendersi all’evidenza.
La religione
Mancini è molto religioso, anche se dell’argomento parla raramente. Grato al Signore per averlo salvato dalla morte per meningite, a dieci anni, e per tutto ciò che ha avuto dalla vita, Mancini si è sempre distinto per essere uno dei personaggi del calcio più attivi nella beneficienza silenziosa. Tante le persone da lui aiutate, senza mai avvertire i fotografi. Qualche mese fa Mancini ha raccontato in televisione, su Rai 2, che quando ancora giocava nella Sampdoria gli era apparsa in sogno la Madonna di Medjugorie, della quale gli aveva parlato il parroco della squadra blucerchiata. E in pellegrinaggio a Medjugorie sarebbe andato tante volte anni dopo, parlando anche con i veggenti.
La famiglia
Figlio di un falegname e di una casalinga, Mancini si è sposato con Federica Morelli poche settimane prima del Mondiale del 1990, giocato in Italia. Dal matrimonio, finito nel 2015 (dal 2018 Mancini è sposato con l’avvocato Silvia Fortini), sono nati Filippo, Andrea e Camilla, con i due maschi che hanno provato a seguire le orme paterne nelle giovanili dell’Inter e del Manchester City prima di fare altro. Gli hobby? Tanti. La passione di Mancini per le barche di lusso è nota e del resto se la può permettere, sia come utilizzatore sia come imprenditore. Poi gli investimenti immobiliari, quelli finanziari (alcuni finiti male, ma fra gli ex calciatori è uno di quelli con più successo), l’immancabile padel e l’amatissima moda: non solo le famose sciarpe di cachemire con il mitico nodo alla Mancini, ma anche linee di abbigliamento da lui firmate.
La COVID-19
Come tutti gli sportivi, Mancini ha sofferto per queste due stagioni mezze rovinate dalla pandemia. E nell’ottobre scorso è quasi passato per negazionista del coronavirus - in certi momenti di follia si sono usati davvero questi termini - quando sul suo profilo Instagram ha condiviso una vignetta in cui si vedeva un uomo in ospedale che dava la colpa della malattia ai troppi telegiornali guardati. Di sicuro lui è stato uno dei pochi uomini di sport ad attaccare il ministro della Salute Speranza ed in generale l’ideologia delle chiusure indiscriminate, dicendo che anche lo sport è un diritto, come la scuola. Fra l’altro a fine 2020 Mancini è risultato positivo alla COVID-19, ma non ha avuto grossi disturbi.
La Turchia
Dopo l’ottimo periodo al Manchester City ed un breve periodo di disoccupazione, Mancini nel 2013 è ripartito proprio dalla Turchia, dal Galatasaray, al posto dell’esonerato Terim, facendosi ricordare per avere eliminato la Juventus di Conte dalla Champions League e per essersi poi - in campionato - guadagnato la qualificazione alla Champions successiva. Una stagione quasi trionfale, con riconferma scontata, anche perché aveva già il contratto per altre due stagioni. Però Mancini voleva tornare in Italia e l’occasione gliela offrì di nuovo l’Inter con l’esonero di Mazzarri.
Il 1982
Mancini sarebbe potuto diventare campione del mondo prima dei 18 anni, come Pelé nel 1958. Bearzot seguiva con attenzione i suoi inizi nel Bologna e fu tentato di metterlo nel listone dei 40 per Spagna ’82, da cui sarebbero usciti i 22 convocati. Poi decise di non bruciarlo e lo convocò un paio d’anni dopo, anche se il ventenne Mancini lo deluse uscendo senza permesso dall’albergo della Nazionale, a New York, per fare serata insieme a Tardelli e ad altri. Con Bearzot la storia si chiuse lì. Con Arrigo Sacchi e con il Mancini trentenne non sarebbe andata tanto diversamente, anche se in quel caso i motivi della mancata convocazione per il Mondiale del 1994 furono tattici.
L’Europeo
L’unico precedente di Mancini in questo torneo risale al 1988, quando il commissario tecnico azzurro Azeglio Vicini lo considerava un punto fermo della Nazionale insieme all’amico Vialli. Il problema di Mancini nella sua travagliata carriera con la maglia azzurra è sempre stato uno: i pochi gol, nonostante prestazioni spesso buone. Nella partita di esordio di quel torneo, all’epoca ad otto squadre, sbloccò il risultato contro la Germania Ovest padrona di casa: un destro su assist di Donadoni, il primo gol in Nazionale. Festeggiato con una corsa sotto la tribuna stampa insultando i giornalisti. Cosa che non gli attirò molte simpatie, né da parte dei media né da quella di Vicini. Che presto lo fece entrare in un cono d’ombra, convocandolo per Italia ’90 ma tenendolo sempre ai margini. 33 anni dopo una nuova occasione, per lui e per Vialli.