"Agli studenti bisogna dare contraddizioni"

Intervista con il saggista italiano Giulio Ferroni: "La scuola ha perso di vista la complessità"
"Si sta verificando, nella scuola, un alleggerimento del modello tradizionale, che ha fatto grande l'Europa, a favore di una visione competitiva e stranamente limitata"
Tommy Cappellini
Tommy Cappellini
15.06.2015 05:05

Con la scuola, oggi, non andiamo più d'accordo, o comunque meno che in passato. Certo, se ne discute parecchio: paginate di analisi ad ogni mezza riforma o progetto integrativo. Tuttavia il tema scivola, è scomodo, a volte pesante. La ragione è semplicissima: si studia per il lavoro o si studia per la vita? Nessuno lo sa. C'è incertezza. Le due visioni sono sempre più incompatibili.

Giulio Ferroni è professore universitario di lunghissimo corso e saggista. Il suo recente La scuola impossibile ha suscitato dibattiti più intensi del solito, perché è un pamphlet di quelli strutturati, interventista sì, ma poco effimero e con un disincanto di fondo percepibile fin dal titolo.

Ferroni, come vanno le cose in quell'Europa che è stata per più di due secoli il centro della migliore istruzione mondiale?

«Situazione confusa. Sta prevalendo un modello di scuola rivolto all'immissione diretta degli alunni nel mercato del lavoro. È la scuola american style, svuotata del carattere formativo che aveva come punto di riferimento una maturazione complessa della personalità. Ovvio che chi non si sta adattando velocemente a questo sistema ne risenta. Aggiungo, però, che gli studenti del "vecchio" modo mostrano ancora, nelle valutazioni globali, ottimi risultati».

Le valutazioni: troppo numeriche e sterili, si dice, sia quelle destinate agli studenti che quelle per gli insegnanti. È così?

«Subiamo il controllo della statistica sotto ogni orizzonte della nostra vita: dalla salute all'economia domestica, dall'amicizia all'apprendimento. Siamo tutti profilati secondo parametri, bisogna pur dirlo, di natura finanziaria».

C'è di fatto una resistenza nei confronti della valutazione, forse più tra gli insegnanti che tra gli alunni. Ma non era uno degli strumenti della meritocrazia?

«Qui c'è un problema serio: un'ossessione per le competenze che è all'opposto della valutazione di ciò che è e ci sarà nella mente dello studente. Per intenderci: la scuola deve proporre il non ancora noto, trasmettere questo tipo di curiosità e sincerarsi che sia genuina. Si sta verificando, invece, un alleggerimento del modello tradizionale, che ha fatto grande l'Europa, a favore di una visione competitiva e stranamente limitata, se parliamo di esseri umani a tutto tondo. Una visione funzionale a un'idea di cultura che ha ben poco di universalistico».

Ivan Illich già all'inizio dei Settanta: «La scuola è l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com'è».

«Sono d'accordo. La scuola è davvero ridotta a un'agenzia per l'integrazione dei giovani in una società già data o come si immagina debba essere, senza tener presente che la società è in movimento continuo. Bisognerebbe invece immettere coscienza critica negli studenti, affinché capiscano che il mondo non è come appare e che sarà inevitabilmente diverso in futuro. Una contraddizione a cui bisogna essere preparati. Ma l'idea sfugge del tutto, anche a molti insegnanti. Non si vogliono creare contraddizioni nello studente, questo è il punto».

Ci dica qualche strada alternativa da percorrere.

«Siamo quasi all'impossibile, come segnalo nel titolo del mio saggio. La via principale, ad ogni modo, sarebbe quella di far leva sugli insegnanti, sul valore che essi stessi riconoscono alla propria disciplina. Se entrano davvero nell'autenticità delle loro materie possono creare una resistenza nei confronti del "già dato" e delle idées reçues. Prendiamo la matematica: se il docente non persegue la ripetitività meccanica delle formule e se conduce l'alunno nel corpo vivo della materia, ecco che può trasmettere antidoti alla sottoscrizione banale del presente e della realtà».

E forse, visto che parliamo di matematica, aiuterebbe a colmare il fossato che si sta scavando tra cultura scientifica e umanista.

«Le due non sono mai state separate. Che le si stia contrapponendo è una deriva che ha dell'assurdo. La grande scienza europea è nata filosofica e ha sempre portato con sé una domanda sulla vita e sull'essere, dando un senso perfetto alla cultura intesa come integralità tra pensiero, manualità, riflessione a distanza, sospensione momentanea dell'esperienza. Tutte capacità che non servono a coltivare soltanto paradisi umanistici. Oggi, però, è passata l'idea che basta premere un tasto per conquistare tutta la cultura possibile. Su internet, naturalmente».

Chi ha indirizzato le cose in questo modo?

«Si ritorna a quello che dicevo prima. I pedagogisti sono stati sostituiti da economisti e statistici: gente che vuole una scuola che sia all'altezza non della formazione critica dell'individuo, che può pure portare a capacità eccellenti nel mondo del lavoro, ma della legge, peraltro manipolabile a secondi fini, della domanda e dell'offerta. Insomma, una scuola-azienda che sforni persone che sappiano lavorare bene in un'altra azienda. Non dico che non sia utile, ma è una sconfitta umana e politica, visto che agli stessi risultati, e ad altri migliori, civilmente migliori, ci si può arrivare pure attraverso una formazione complessa».

Tra l'altro, l'immigrazione complica le cose.

«Il trend diventerà ancora più sconvolgente. Si tratta di un movimento colossale. I tentativi di fermarla, denigrarla o negarla hanno del ridicolo, per non parlare dell'insipienza dei tecnocrati a Bruxelles. Non si tratta di predisporre una generica integrazione, ma di favorire negli immigrati un accesso che sia anche critico alla nostra cultura, dopo aver riconosciuto il loro diritto all'alterità. Se non si trova il modo di metterli in rapporto con la civiltà che in Europa è stata accumulata per secoli, sarà un disastro. Questa dell'immigrazione è davvero una chance da non perdere per il rilancio di una scuola che si fondi su un rapporto diretto e individuale con gli studenti. I modelli precostituiti sono ingannevoli. L'unica cosa che conti è la passione per il futuro».

Infine, una sua esperienza svizzera?

«Il semestre che ho tenuto al Politecnico di Zurigo, sul Boccaccio e sul comico nella tradizione italiana. Ci fu un dialogo fitto con gli studenti, moltissimi ticinesi. Alla fine hanno fatto le loro tesine: ottime, salvo qualche eccezione. Ho ammirato l'efficienza amministrativa elvetica intorno alla cultura: speriamo che resista. Sa, oggi si pensa solo a tagliare. Per chi? Chiediamocelo».

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