Il gatto? Fa finta di niente ma capisce

Che i gatti non rispondano con lo stesso entusiasmo dei cani quando i loro compagni umani li chiamano, è risaputo. Per molti è anche questo il fascino del felino di casa: quella specie di distacco che mostra nei nostri confronti. Ma è proprio così o magari alla base c’è un’incomprensione o meglio la mancata comprensione del suono che pronunciamo? Un team di ricercatori giapponesi ha voluto vederci chiaro, con una serie di test che hanno attirato l’attenzione per più di un motivo.
Atsuko Saito, ricercatrice al dipartimento di scienze della cognizione e del comportamento dell’Università di Tokyo, ha voluto verificare la vicino la situazione. Assieme ai suoi colleghi ha sviluppato una serie di test, alla quale potevano essere sottoposti gatti domestici tenuti in casa o nei famosi neko-cafe, i ristorantini che tengono diversi gatti per permettere ai clienti di interagire con loro o semplicemente di apprezzarne la presenza. In pratica venivano pronunciate quattro parole simili e poi il nome del gatto. Grazie a una videocamera, si è potuto documentare la reazione del felino. Osservatori ai quali non veniva detto che tipo di suono era stato emesso, dovevano poi valutare in una sessione separata, la reazione dell’animale.
Le reazioni erano poco vistose ma presenti: non c’erano movimenti ovvi verso la voce, né movimenti percettibili della coda. Erano però chiari i movimenti della testa e delle orecchie. Della cinquantina di gatti osservati in totale, tutti hanno dimostrato di riconoscere il proprio nome, che veniva pronunciato sia da chi vive con loro, sia da degli estranei. Nel test condotto con i gatti che vivono in gruppi da 6 a 24 esemplari, i felini hanno dimostrato di riconoscere il loro nome.
Secondo Saito e i suoi colleghi i gatti imparano il suono che noi identifichiamo come «nome», come quello associato a situazioni positive (cibo, gioco, coccole) o negativo (bagno, visita dal veterinario) che lo concernono. Dunque apprende così che quel suono è diretto a lui. Chi però ha molti gatti, spesso li chiama tutti in una volta, per esempio quando è pronta la cena. Questo permetterebbe di spiegare una differenza importante osservata nei gatti dei neko-caffè rispetto a quelli che vivono in case private: sebbene avessero dimostrato di riconoscere il proprio nome se confrontato con altre parole, non facevano differenza tra il proprio e quello degli altri gatti che vivono con loro nel caffè. Inoltre nei neko-caffè, un avventore magari chiama un gatto, che non risponde, ma gli si avvicina un altro dei felini che vivono nella struttura. Questo allora magari riceve le attenzioni e i bocconcini che erano destinati al suo compagno. In questo modo i gatti apprenderebbero che, se sono interessati, possono trovare coccole e cibo se viene pronunciato uno dei diversi nomi dati ai gatti.
In fin dei conti non possiamo sapere se il gatto si identifichi con questo suono che noi pronunciamo e chiamiamo «nome». Per lui può essere semplicemente un segnale che noi emettiamo segnalandoli la nostra disposizione a elargire bocconcini, a volerci intrattenere giocandoci assieme o a dispensare carezze e grattatine.
Nel mondo scientifico si è apprezzato il modo di procedere del team giapponese, perché non prevede addestramenti o l’allontanamento anche solo momentaneo del gatto dal suo ambiente. Anzi: nei neko-caffè non si sono mai isolati gli animali dal resto della colonia. Ma, a quanto pare discretamente, nessun altro esemplare è venuto a disturbare chi era l’oggetto in esame. Tutte le parole erano state pre-registrate, per evitare differenze nella pronuncia o nell’intonazione da parte degli umani e le prime quattro venivano usate per «abituare» il soggetto studiato: chiaramente, se dopo un momento di silenzio c’è un rumore qualsiasi, il gatto può mostrare una reazione, senza che però voglia dire che abbia riconosciuto qualcosa di particolare.
I gatti dunque riconoscono il proprio nome se pronunciato tra tutto il resto che noi diciamo. Ma questo non vuol dire che poi facciano balzi di gioia come i cani. I gatti non si sono evoluti per rispondere a dei nostri segnali, ha spiegato Saito alla rivista New Scientist. Così comunicano con noi solo quando vogliono loro, altrimenti ci ignorano. E questo è parte dell’essere gatto.