Comprensione, non compassione

Come reagiamo quando incontriamo una persona con disabilità? Abbassiamo lo sguardo oppure le sorridiamo, salutiamo cordialmente o cerchiamo di veicolare sentimenti nobili con delicate e controllate espressioni del viso? Dove si situano i nostri pensieri sull’ipotetica linea che unisce «ti vedo, ben oltre la tua disabilità» a «non vorrei, sorridendoti, sminuire le tue fatiche»? Tante e complesse sono le emozioni che la disabilità può smuovere in noi, ricordandoci la fragilità della natura umana e portandoci a profondità interiori ben lontane dalla vita di chi ci è di fronte in quel momento. Il nostro sguardo, però, arriva alle persone che incrociamo senza la spiegazione di cosa accada dentro di noi durante quell’incontro.
«Ero in spiaggia, una donna fissava insistentemente mio figlio, che ha la sindrome di Down» racconta Lucia. «Mi sembrava di sentire la sua curiosità, perfino il suo giudizio. Mi sono innervosita immaginando cosa potesse provare il mio bambino con il peso di quegli occhi addosso... Allora ho cominciato a fissarla a mia volta, sfidante, finché anche lei ha guardato me. ‘Ti ho beccata’, mi son detta soddisfatta quando ha portato altrove il suo sguardo. Più tardi ho capito di essere stata io a giudicare precocemente quella donna. Ho potuto comprendere quali pensieri le avesse suscitato la mia famiglia solo quando il marito ed il figlio adulto, anche lui con la sindrome di Down, l’hanno raggiunta sotto l’ombrellone. Forse se mi avesse semplicemente sorriso non mi sarei sentita così.» Le persone con sindrome di Down, oggi, possono avere vite ricche di esperienze, relazioni personali, percorsi di scelta e autodeterminazione in molti ambiti della vita. Sarebbe bello se la dignità per cui le famiglie hanno lottato negli ultimi decenni si riflettesse anche nello sguardo della società, a cui viene chiesto di accogliere e di astenersi da un giudizio sulla qualità di vita delle persone che si confrontano con la disabilità. Non si può dedurre che una persona abbia una vita di sofferenze basandosi solo su poche caratteristiche evidenti: a chi è dato di tirare le somme su quanto sia ricca una vita?

«Guardo mia figlia con Trisomia 21 con orgoglio, gioia e ammirazione. Chi ci incontra, leggendo questi sentimenti nei nostri occhi e nei nostri gesti, li fa anche un po’ suoi...» racconta Sveva. «Quello dello sguardo è un argomento che mi sta molto a cuore: i nostri figli si riflettono negli occhi di noi genitori prima ancora che nei loro o in quelli del mondo esterno. Io vorrei che mia figlia specchiandosi negli occhi degli altri si sentisse stimata e accettata.» È quindi vero, come ricorda Gardou («Nessuna vita è minuscola – per una società inclusiva»,. Mondadori università, 2016), che «il desiderio di stima sociale, che fonda l’autostima, definisce l’uomo. (...) L’uomo è plasmato da chi lo circonda, lo considera o lo ignora. L’interesse che gli mostrano gli altri nutre la sua identità e il suo sentimento di esistere.»
È possibile che da parte di chi non vive il mondo della disabilità vi sia soprattutto il timore di sbagliare con le proprie reazioni. «Abbiamo una vita felice, seppur con qualche fatica. D’altronde chi non ne ha...?» dichiara Silvia. «Certamente c’è chi ne deve affrontare qualcuna in più» prosegue Paola «non si può negare che la disabilità renda la strada un po’ più difficile. Noi genitori chiediamo comprensione, non compassione. Vorremmo sentirci accolti e capiti anche nei momenti difficili, quando un comportamento ci mette per un momento a disagio o quando un traguardo tarda ad arrivare. Non ci aiuta essere visti come meno fortunati, non vogliamo che ai nostri figli venga concesso tutto né tantomeno vogliamo vivere in un mondo dove nessuno si aspetta nulla da loro. Ciò che desideriamo è sentire nello sguardo degli altri è che i nostri figli sono visti, accettati e valorizzati, così come sono.»