Curtis e i nativi d'America a Lugano

Nel 1906 il banchiere J. P. Morgan finanziò il fotografo Edward Sheriff Curtis con 75 mila dollari, cifra notevolissima all?epoca, da erogare su cinque anni. La missione era comporre la storia per immagini di un mondo che stava scomparendo per sempre e che già l?artista aveva seguito con interesse: quello degli indiani d?America. «Almeno 1.500 fotografie da distribuire in 20 volumi» la base dell?accordo. Ci vollero, alla fine, vent?anni, 80 tribù faticosamente raggiunte e frequentate e ben 40 mila scatti, poi selezionati con cura: l?ultimo volume di «The North American Indian» uscì nel 1930. Per l?impresa, Curtis assunse diversi impiegati, non tenne nessun salario per sé, fu sempre alla ricerca di denaro; i soldi di Morgan, d?altra parte, dovevano servire solo per le spese sul campo, testi e stampa dei preziosi portfolio rilegati in pelle erano esclusi; pure lo stesso banchiere ricevette come rimborso solo 25 set e 500 stampe originali. Fu un?impresa titanica, che ricorda quell?Atlante Mnemosyne, ovvero della memoria, sognato e quasi costruito due decenni più tardi da quell?altro, questa volta ricchissimo, genio europeo, Aby Warburg. Siamo fortunati: alcune decine delle opere di Curtis sono giunte a Lugano per la mostra «La danza della memoria» (De Primi Fine Art, piazza Cioccaro 2, Lugano, inaugurazione giovedì alle 18, fino al 6 aprile). Le date degli scatti esposti partono dal 1904 per arrivare al 1927, molti sono realizzati con la tecnica della gravure, certi riportano la firma dell?autore o sono incastonati nelle cornici originali. Si tratta di immagini di navaho a cavallo, di volti, specie femminili, delle tribù kalispel, ponca, hupa, wailaki, atsina, di cerimonie akirara, vi sono pure gli sconfinati paesaggi dell?ovest e del nord degli Stati Uniti. Sarebbe facile dire che si tratta di un immaginario western che conosciamo bene, grazie alla distorsione cinematografica che ne fece Hollywood mezzo secolo dopo: in realtà è molto di più. «Attraverso la foto, quando non degradata a livello di pratica estetica, è l?oggetto che ci guarda e che ci pensa» diceva Baudrillard, e l?esperienza di trovarsi davanti a uno scatto di Curtis ed essere guardati e pensati da volti, e da popoli, che non esistono più è straniante. Pochi artisti d?oggi riuscirebbero a ricreare una tensione morale simile a quella che Curtis, nella sua semplice volontà documetaria, ha raggiunto in queste immagini scattate sul crinale di una civiltà. E poi c?è il lato artistico, così come l?amore per la natura. In «La casa dei sette abbaini», pubblicato da Nathaniel Hawthorne nel 1851, il dagherrotipista Holgrave parla della capacità meccanica della fotografia di rivelare il carattere nascosto delle cose: «La semplice luce del cielo aperto ha un meraviglioso intuito. Mentre noi crediamo che dipinga soltanto la mera superficie, essa in realtà fa emergere il carattere segreto con una veridicità che nessun pittore oserebbe riprodurre, se pure sapesse scoprirla» La lunga e tormentata vicenda biografica di Curtis – morì a 84 anni dopo 65 mila chilometri percorsi in territori pressoché selvaggi e meravigliosi, un doloroso divorzio e diverse «scene madri» per problemi economici – racconta nient?altro che questo segreto d?America.