Gara Cristallina in parole e immagini

Manca poco alla partenza e l’emozione sale... sento il battito cardiaco che sobbalza ogni volta che guardo l’orologio per accertarmi quanto manchi al via. Mi rassicuro, dicendomi che del resto questo 2020, di soddisfazioni sportive ne ha date poche e mentre l’adrenalina si fa strada nelle vene, contemplo l’anfiteatro che la Val Bedretto offre ai suoi visitatori. Il sole illumina la cima del Pizzo Rotondo ad oltre tremila metri di quota, mentre qui sul fondovalle regna ancora una surreale penombra. L’aria che scende dalle montagne è fresca ma piena di vita e di buoni auspici, come quando al ristorante si riconosce l’odore della propria pizza che cuoce nel forno. Mi accorgo che le gambe nude si ribellano ed un’ostinata pelle d’oca ne corruga la superficie. Altri concorrenti si apprestano, mascherina sul volto come per un assalto al treno d’altri tempi, a ritirare il loro pacco gara ed il pettorale seguendo scrupolosamente le precise indicazioni dello staff. Mi chiedo come abbia fatto l’organizzazione a recuperare volontari tanto fedeli da trovarsi qui alle sei del mattino per essere d’aiuto a sconosciuti. Passa un’auto sulla strada che sale verso il Passo della Nüfenen e realizzo che il percorso di gara raggiungerà quote ancora maggiori di questo valico. Mi distraggo facendo due passi per riscaldarmi un po’ e nel frattempo osservo da lontano il grande curvone sospeso che sale verso il San Gottardo. In questa zona l’ingegneria civile e militare ha veramente dato il suo meglio. I passi, i trafori, i forti e poi le dighe con i loro cunicoli per spostare l’acqua di qua e di là, oppure il paese di Fontana, distrutto da un incendio nel 1868 e ricostruito con un’impronta urbanistica moderna che si nota quando lo si attraversa in auto. Cerco un bar ma mi dicono che l’ultimo ha chiuso una decina di anni fa e mi soffermo a pensare a quanta vita doveva esserci in queste valli prima. Nel frattempo, gli altri partecipanti si accalcano nella zona della partenza per il briefing che avrà luogo a breve. Mi avvicino ma fatico a riconoscere le persone a causa della mascherina che copre loro il viso. Chi parla, dopo un breve saluto, spiega soprattutto la parte sulla sicurezza in gara sottolineando che qui è montagna e la montagna non ci va per il sottile con chi non la rispetta e che occorre stare attenti a possibili cadute di sassi o a non inciampare nei punti più critici. Di fianco a me un ragazzo ischitano alla sua prima esperienza mi fissa con uno sguardo che potrebbe essere figlio del diavolo tra stupore ed orrore, quasi come se in realtà si andasse a muover guerra contro un esercito ostile. Lo tranquillizzo perché, conoscendo l’organizzazione, so che non vi saranno punti esposti anche se, sulla questione dei sassi, non posso fare altro che suggerirgli di ascoltare bene ciò che accade attorno, durante la salita e di tenere gli occhi aperti. La montagna tende a non fare prigionieri. Chiacchierando non mi accorgo che si sta già facendo il conto alla rovescia ed in men che non si dica la massa di corridori, come quando un semaforo diventa verde e gli automobilisti inferociti pigiano sull’acceleratore, si mette in moto. Subito sento il cuore aumentare i giri ed in pochi secondi ho già un fiatone che sembra quello di un fumatore mentre si trascina dalla televisione al frigorifero, compreso un formicolio alle braccia ed al collo. Si sale dolcemente ma, come sempre accade, davanti c’è chi tira il gruppo e dietro chi lo spinge e ci si sente come tra l’incudine ed il martello. Passato il primo pascolo ci si addentra nella folta pineta e seguendo un percorso piuttosto ripido con molte asperità, si guadagna quota. Al primo incrocio leggo il cartello segnaletico che indica il Bosco dei Valloni e vedo un volontario che ci da indicazioni sul percorso da seguire. Mi concentro ma il fiato sempre più affannoso e le gambe con l’acido lattico alle stelle non mi permettono nemmeno di fargli un cenno di saluto. Riesco però a pensare quanto questo territorio sembri stato creato con nomi tratti da libri o film fantasy... Nomi semplici che evocano in chi conosce questi luoghi, delle emozioni fortissime. Folcra di Mezzo, Assassinavacche, Lago del Corbo e molti altri toponimi che ci ricordano che ogni luogo è stato visitato, vissuto ed etichettato. Intanto sembra che il respiro e le gambe comincino ad entrare in gara, riuscendo a riprendere un paio di concorrenti e superarli dove il sentiero si allarga provvidenzialmente. La psicosi del Covid-19 mi stimola a trattenere il fiato mentre passo vicino ad un corridore che ansima visibilmente e quasi istintivamente penso che potrebbe trasmettermi il virus. Poi mi rendo conto dell’imbecillità del mio pensiero e cerco di pensare ad altro. Arrivando al limitar del bosco e dopo essersi lasciati alcuni larici secolari alle spalle, intravvedo l’Alpe Stabiello Grande dal quale una bella pianura permetterebbe un piccolo recupero delle forze ma solo in teoria; in pratica si aumenta il ritmo, così lo sforzo rimane costante. Presso un piccolo alpeggio il sentiero curva bruscamente a sinistra ed inizia ad inerpicarsi nella Val Cassinello, una zona dove durante l’estate mandrie di mucche pascolano tranquillamente senza vie di evasione grazie ad altissime pareti rocciose, mentre in inverno, diventa il paradiso dello sci-escursionismo. Osservo una linea dell’alta tensione che è stata abilmente fatta passare a ridosso di guglie rocciose e pinnacoli granitici tra i quali scorgo con grande stupore un branco di stambecchi. Inciampo su un sasso e mi accascio al suolo tra alcune imprecazioni poco sportive e mi rendo conto che guardarsi in giro va bene ma non troppo. Adesso la salita si fa seria e scorgo sulla Bassa di Folcra, cinquecento metri più in alto, un puntino giallo. Si muove e riconosco la forma di un essere umano, un altro volontario messo a presidiare un punto strategico come un soldato che difenda la sua postazione. Sarà li certamente da questa mattina e mi prometto di scambiare due chiacchiere con lui quando lo raggiungerò. Un sentiero tortuoso si inerpica su coni di deiezione di alcuni canali rocciosi sopra di me e mi rendo conto che l’avvertimento su possibili cadute di pietre si riferiva proprio a questa zona. Osservo un puntino blu che segnala il percorso di gara su di un masso alcuni metri sotto il sentiero e mi viene in mente di aver sentito che quando piove la montagna prende vita. In effetti due settimane addietro la meteo inclemente ha dato filo da torcere in tutto il Cantone e quindi è possibile che tutta questa zona abbia scaricato a valle rocce, ghiaia ed alcuni massi. Rifletto che è stata una saggia decisione di rimandare la gara di due settimane anche se in quel momento mi pareva peccato. Guardo l’orologio e sono quasi alla quota del passo. La distanza tra chi mi precede, che nel frattempo scollina e chi mi segue è sempre maggiore e rientro in quel mood solitario e pensieroso. Gli ultimi tornanti sono sempre più brevi e lo zig-zag lo si può vedere bene anche dall’alto. Certamente tanta precisione la si deve all’esercito che nel passato era molto presente in questa zona, con accantonamenti ed una teleferica per il trasporto di materiale che proprio qui alla Bassa di Folcra entrava in una piccola galleria per poi ridiscendere verso la Val Torta. Finalmente raggiungo la cresta e mi si apre uno scenario da cartolina con a sinistra il Madone con la sua piramide sommitale e a destra il massiccio del Cristallina. Tra i due giganti, il Passo del Narèt, prossimo colle che mi farà sudare. Avevo ragione, un volontario mi sorride e mi dice che adesso si va in discesa. Mi affaccio e vedo il ripidissimo pendio erboso nel quale una traccia in diagonale, porta verso valle. Nonostante la promessa della salita e sentendo avvicinarsi chi mi sta dietro, con un sentimento agonistico molto intenso, saluto con voce affannata questa persona, congedandomi. La strada l’avrei trovata da solo grazie alle bandierine segnaletiche ma non c’è nulla di più bello e di rincuorante di un sorriso, di una parola di incitamento, di un segno d’affetto o di amicizia. Un volontario è insostituibile e soprattutto in questi luoghi sperduti, solitari e senza ricezione telefonica può fare la differenza tra continuare il percorso di gara o sentirsi inadeguati e interrompere la corsa. La discesa nel frattempo è quasi finita e mi ritrovo in mezzo alla valle. Di fronte a me si aprono pascoli e ruscelli dove settimane fa ho incontrato delle splendide mucche. Ne sento ancora il profumo e quella accogliente compagnia che sanno dare con le loro campane, i muggiti e gli sguardi curiosi di quando le si avvicinano. Una traversa mi porta ai piedi dell’ultima vera salita di questa gara e cerco di dare il meglio. Osservo una miriade di schegge di quarzo sul sentiero che grazie al sole mattutino luccicano in maniera caleidoscopica e dopo qualche minuto mi affaccio sull’anfiteatro dei Laghi del Narèt. Un fotografo mi scatta qualche foto ma sono troppo preso da un tale panorama per pesare di mettermi in posa o di sorridere. Rimango ad occhi spalancati come un merluzzo e mi dico che come di una moglie speciale, anche di questi panorami, non ci si può mai stancare. Uno sguardo alle mie spalle per vedere la guglia del Gararesc, una montagna che da qualunque parte la si guardi, non mostra alcuna via di accesso semplice. Poi avanti e giù, verso il lago che con il suo blu intenso sembra pronto ad accoglierti per sempre in una quiete onirica e farti sprofondare nell’eternità. Su un sasso vedo la scritta che manca solamente un chilometro all’arrivo ma già mi sembra peccato. Questo è un viaggio eccezionale e vorrei continuasse all’infinito, con salite e discese, erba, sassi, macchie di neve sui costoni più alti, sentieri, stambecchi e stelle alpine. Ma come da ogni sogno, prima o poi ti devi svegliare e questo mi succede nel momento esatto in cui appoggio il primo piede sulla strada asfaltata che segue la corona della diga. Mi scuoto di dosso la fantasia, osservo con occhio tecnico l’imponente doppio arco con la quale gli ingegneri hanno voluto questo sbarramento e lo percorro, passo dopo passo, con estrema lucidità, ammirando l’infinita serie di cime che seguono la cresta della Valmaggia da un lato ed il blu cobalto delle acque del lago dall’altra e mi rendo conto che vivere qui e non in paesi tormentati dalla guerra o dalla fame, non è un mio merito ma solo un colpo di fortuna come ce ne sono pochi. Attraverso l’arco di arrivo con una fotografa che immortala la mia felicità e mi lascio andare ad un pianto liberatorio.
