L'intervista

Gran Premio svizzero di design, a tu per tu con Eleonore Peduzzi Riva

La designer di ambienti, che vive tra Riehen e Milano, ci racconta gli incontri straordinari della sua carriera e i pezzi iconici come il divano “Organic”, disegnato a più mani, che Mick Jagger tiene in salotto
© BAK_Diana Pfammatter
Stefania Briccola
22.04.2023 22:00

Il concetto di flessibilità sta alla base della pratica della versatile Eleonore Peduzzi Riva che è tra i vincitori del Gran Premio svizzero di design 2023. I suoi progetti aperti traducono la voglia di fare sistema e di innescare processi virtuosi per trovare soluzioni che mettano al centro l’uomo. L’architetto basilese, classe 1936, è da sempre protesa verso la modernità. Si è distinta come designer d’interni e di prodotto, soprattutto in Italia, spaziando dagli oggetti alla luce fino al sistema abitativo e la direzione artistica di aziende. Eleonore Peduzzi Riva che vive tra Riehen e Milano, al Corriere del Ticino racconta gli incontri straordinari della sua carriera e i pezzi iconici come il divano “Organic”, disegnato a più mani, che Mick Jagger tiene in salotto. L’illustratore Etienne Delessert e la storica dell’arte Chantal Prod’Hom, sono gli altri vincitori del Gran Premio svizzero di design 2023. La cerimonia di consegna si terrà il 13 giugno a Basilea.

Eleonore Peduzzi Riva, come ha accolto la notizia del Gran Premio svizzero di design 2023?
«Sono molto stupita che la giuria mi abbia proposta perché in Svizzera non mi conosce nessuno. Qui non sanno neanche che mi chiamo Eleonore Peduzzi Riva perché sono nota come Eleonore Jaquet da quando ho spostato Valentin Jaquet».

Quale è stato il suo primo impatto con Milano venendo da Basilea nel dopoguerra?
«Quando sono arrivata a Milano alla fine degli anni Cinquanta, dove ho frequentato da auditrice sia il Politecnico che l’Accademia di Belle Arti di Brera, mi sono trovata come in paradiso perché c’era collaborazione. I ragazzi in Svizzera coprivano col braccio il loro lavoro appena uno sbirciava cosa facevano, mentre in Italia era tutta un’altra roba e mi sembrava di essere la Lollobrigida». 

Ha avuto modo di frequentare anche il Ticino? 
«No, anche se ho conosciuto Mario Botta e altri architetti. Sono grigionese d’origine, parlo il rumantsch e tutti gli anni ho sempre passato le vacanze in Val Monastero». 

Che cosa la intriga di più dei grigionesi?
«I grigionesi sono molto creativi. Inoltre trovo molto sexy il loro tedesco. La mia famiglia era originaria di San Vittore in Mesolcina. Quando ero al Politecnico di Milano e dicevo che venivo da San Vittore credevano che alludessi alla prigione della città».

La mia famiglia era originaria di San Vittore, in Mesolcina. Quando ero al Politecnico di Milano e dicevo che venivo da San Vittore credevano che alludessi alla prigione della città

Nel suo percorso di formazione tra Basilea e Milano quali maestri ricorda?
«Alla Allgemeine Gewerbeschule di Basilea c’era Paul Artaria, un personaggio incredibile che ha avuto una vita eccezionale. Quando si usciva per fare dei rilievi e prendere le misure delle case l’architetto e mio insegnante diceva “Anche Fräulein Peduzzi porti carta e matita!”. Io ero molto più giovane dei miei compagni di studi e forse un po’ sbadata. Al Politecnico di Milano c’erano dei gran professori come Gio Ponti e Ernesto Nathan Rogers».

Si avvertiva nella Milano di fine anni Cinquanta il bisogno di costruire una nuova società?
«Posso solo supporre che col dopoguerra in Italia un sacco di cose che noi abbiamo vissuto prima sono state percepite, più tardi, negli anni in cui sono arrivata».

Come se la cavò, una volta giunta a Milano, con l’italiano?
«Parlando il rumantsch, che mi è stato insegnato da mia madre, ho imparato in fretta la lingua. Ho un orecchio colto e in realtà volevo studiare musica».   

Come è diventata consulente di Maddalena De Padova al centro dell’omonimo docu-film della regista Didi Gnocchi dove anche lei compare? 
«Sono stata per tanti anni consulente di Maddalena De Padova che ho conosciuto nel corso di un viaggio per architetti. Lei aveva appena perso suo marito ed era alle prese con la gestione della fabbrica. A Maddalena è parso che fossi la persona giusta per aiutarla. Non sono mai stata sua dipendente perché altrimenti non saremmo diventate amiche. La consulenza era molto facile perché eravamo entrambi a Milano, in Corso Venezia, io avevo lo studio al numero 37 e lei il negozio al numero 14. Quando Maddalena voleva un consiglio, mi telefonava e in cinque minuti ero da lei».

Lei è stata una pioniera nella direzione artistica delle aziende di design in cui ha dettato una linea d’azione… 
«Non so se sono stata una pioniera, ma certamente avevo varie esperienze che mi aiutavano ad essere utile alle aziende».

Come è nata la consulenza per lo stilista Elio Fiorucci?  
«Elio Fiorucci era un personaggio veramente straordinario. Nel 1967 in san Babila a Milano lo stilista aveva aperto il suo primo negozio realizzato dalla scultrice Amalia del Ponte che tuttavia, pur essendo bellissimo, non funzionava. Io ho fatto solo un intervento di illuminazione con la luce alogena che allora si usava solo nell’industria automobilistica. Al che Elio Fiorucci mi disse che vendeva il doppio da quando io gli avevo disegnato questo sistema e da allora sono diventata sua consulente».

Il divano DS 600 traduce il concetto che non è quello di fare un mobile, ma un sistema che possa essere lungo o corto, mosso o no, che poi ho sviluppato con i miei amici

Ricorda qualche aneddoto sull’uomo che ha reso Pop la moda italiana ?
«Con Elio Fiorucci abbiamo fatto dei viaggi divertenti. Ricordo che a Londra avevamo visto un ragazzo con un giubbotto straordinario, allora lo abbiamo seguito ed Elio gli chiese di realizzarne una dozzina per il negozio. Con Fiorucci succedevano cose curiose, ma tutte molto spontanee». 

Come è nato il divano Organic per De Sede amatissimo da Mick Jagger?
«Quel divano è frutto di un progetto condiviso con Ueli Berger, Heinz Ulrich e Klaus Vogt. L’art director di De Sede, Alfred Habluetzel, aveva l’incarico di ringiovanire la collezione e ci chiese di fare delle proposte. Allora noi abbiamo deciso di lavorare insieme e ci siamo molto divertiti nel disegnare il DS 600, mentre Ubald Klug si è staccato dal gruppo e ha fatto il suo angolare».

Quale è stata l’ispirazione del divano Organic DS 600 che si vede nei film di James Bond?
«Il divano DS 600 traduce il concetto che non è quello di fare un mobile, ma un sistema che possa essere lungo o corto, mosso o no, che poi ho sviluppato con i miei amici ed era molto meglio del mio “Senza Fine” disegnato in precedenza per Zanotta».

Sofa DS 600 in der von Eleonore Peduzzi renovierten Villa Paradiso_1977 © Pro Litteris
Sofa DS 600 in der von Eleonore Peduzzi renovierten Villa Paradiso_1977 © Pro Litteris

Come ricorda la collaborazione con Ettore Sottsass?
«Ettore Sottsass jr era un uomo fantastico di grande intelligenza. Abbiamo progettato  insieme un allestimento per la Vistosi quando ero sua consulente. Avevo in mente di fare qualcosa di simile all’operazione del vetro nordico, una specie di immagine collettiva del vetro di Murano che poi non mi è riuscita. In occasione dell’Eurodomus abbiamo realizzato un ambiente, che doveva essere praticamente invisibile e che annullava le pareti, e lì appesi c’erano tutti i pezzi di vetro muranesi».

Come andò quella volta che ha disegnato gli arredi degli uffici di Walter Gürtler a Milano inventando un sistema che Gio Ponti pubblicò su Domus?
«Con Walter Gürtler che era svizzero, di Basilea, come me, c’è stata subito una simpatia. Mi commissionò la sistemazione degli uffici della sua casa discografica, la Mercury, in via san Vittore a Milano. Non trovando dei mobili che mi soddisfacevano li ho disegnati e li ho fatti realizzare da un artigiano poi Bernini li ha prodotti. Gio Ponti ha pubblicato su Domus le foto di questo sistema progettuale di design. Era il mio incontro con l’alluminio…».

Una volta gli ambienti rappresentativi davano sulla strada e i servizi si affacciavano sul giardino; io ho ribaltato questa logica facendo il contrario

Lei ama i progetti aperti. Quale concetto sta alla base del suo design?
«Il design deve essere flessibile. Ho sempre progettato le cose che mi servivano e che non c’erano sul mercato come il letto da bambino che ho disegnato quando sono rimasta incinta. I lettini con le aste in commercio mi sembravano delle piccole prigioni. Così ne ho realizzato uno con le strisce di tela».

Lei ha disegnato anche case e sistemi abitativi. In cosa è stata più innovativa?
«Tra le varie cose più che del restauro degli edifici mi sono occupata spesso di capovolgerne l’abitabilità. Una volta gli ambienti rappresentativi davano sulla strada e i servizi si affacciavano sul giardino. Io ho ribaltato questa logica facendo il contrario».

Come è nata la sua bolla o meglio la “Bola Grande” per Vistosi in vetro di Murano?                                                         
«Senza i vetrai bravissimi che ho incontrato in Laguna non avrei fatto nessuna bolla. Artemide mi ha mandato a Venezia per fare la lampada Vacuna ed è lì che ho scoperto il vetro e di non sapere niente di quello che credevo di sapere. Vistosi mi ha introdotto a Murano e ho conosciuto i maestri soffiatori che devono cominciare da giovani per sviluppare i polmoni adatti per fare questo lavoro tutta la vita. Chi realizza il centrotavola in vetro soffiato, di 62x60 cm, deve essere davvero bravo!»

La “Bola Grande” si trova nei musei…
«Al Moma di New York ce n’è una. La Bola Grande è in vari musei anche in Germania, mentre in Svizzera ancora non c’è».

Gefäss für Vistosi © Raffaele Carrieri
Gefäss für Vistosi © Raffaele Carrieri