Gran Premio svizzero di design, a tu per tu con Eleonore Peduzzi Riva

Il concetto di flessibilità sta alla base della pratica della versatile Eleonore Peduzzi Riva che è tra i vincitori del Gran Premio svizzero di design 2023. I suoi progetti aperti traducono la voglia di fare sistema e di innescare processi virtuosi per trovare soluzioni che mettano al centro l’uomo. L’architetto basilese, classe 1936, è da sempre protesa verso la modernità. Si è distinta come designer d’interni e di prodotto, soprattutto in Italia, spaziando dagli oggetti alla luce fino al sistema abitativo e la direzione artistica di aziende. Eleonore Peduzzi Riva che vive tra Riehen e Milano, al Corriere del Ticino racconta gli incontri straordinari della sua carriera e i pezzi iconici come il divano “Organic”, disegnato a più mani, che Mick Jagger tiene in salotto. L’illustratore Etienne Delessert e la storica dell’arte Chantal Prod’Hom, sono gli altri vincitori del Gran Premio svizzero di design 2023. La cerimonia di consegna si terrà il 13 giugno a Basilea.
Eleonore Peduzzi
Riva, come ha accolto la notizia del Gran Premio svizzero di design 2023?
«Sono molto stupita che la giuria mi abbia
proposta perché in Svizzera non mi conosce nessuno. Qui non sanno neanche che
mi chiamo Eleonore Peduzzi Riva perché sono nota come Eleonore Jaquet da quando
ho spostato Valentin Jaquet».
Quale è stato il
suo primo impatto con Milano venendo da Basilea nel dopoguerra?
«Quando sono arrivata a Milano alla fine
degli anni Cinquanta, dove ho frequentato da auditrice sia il Politecnico che
l’Accademia di Belle Arti di Brera, mi sono trovata come in paradiso perché
c’era collaborazione. I ragazzi in Svizzera coprivano col braccio il loro
lavoro appena uno sbirciava cosa facevano, mentre in Italia era tutta un’altra
roba e mi sembrava di essere la Lollobrigida».
Ha avuto modo di
frequentare anche il Ticino?
«No, anche se ho conosciuto Mario Botta e
altri architetti. Sono grigionese d’origine, parlo il rumantsch e tutti gli
anni ho sempre passato le vacanze in Val Monastero».
Che cosa la
intriga di più dei grigionesi?
«I
grigionesi sono molto creativi. Inoltre trovo molto sexy il loro tedesco. La
mia famiglia era originaria di San Vittore in Mesolcina. Quando ero al
Politecnico di Milano e dicevo che venivo da San Vittore credevano che
alludessi alla prigione della città».


Nel suo percorso
di formazione tra Basilea e Milano quali maestri ricorda?
«Alla Allgemeine
Gewerbeschule di Basilea c’era Paul Artaria, un
personaggio incredibile che ha avuto una vita eccezionale. Quando si usciva per
fare dei rilievi e prendere le misure delle case l’architetto e mio insegnante
diceva “Anche Fräulein Peduzzi
porti carta e matita!”. Io ero molto più giovane dei miei compagni di studi e
forse un po’ sbadata. Al Politecnico di Milano c’erano dei gran professori come
Gio Ponti e Ernesto Nathan Rogers».
Si avvertiva nella
Milano di fine anni Cinquanta il bisogno di costruire una nuova società?
«Posso solo supporre che col dopoguerra in
Italia un sacco di cose che noi abbiamo vissuto prima sono state percepite, più
tardi, negli anni in cui sono arrivata».
Come se la cavò,
una volta giunta a Milano, con l’italiano?
«Parlando il rumantsch, che mi è stato insegnato da mia madre, ho
imparato in fretta la lingua. Ho un orecchio colto e in realtà volevo studiare
musica».
Come è diventata
consulente di Maddalena De Padova al centro dell’omonimo docu-film della
regista Didi Gnocchi dove anche lei compare?
«Sono stata per tanti anni consulente di
Maddalena De Padova che ho conosciuto nel corso di un viaggio per architetti. Lei
aveva appena perso suo marito ed era alle prese con la gestione della fabbrica.
A Maddalena è parso che fossi la persona giusta per aiutarla. Non sono mai
stata sua dipendente perché altrimenti non saremmo diventate amiche. La
consulenza era molto facile perché eravamo entrambi a Milano, in Corso Venezia,
io avevo lo studio al numero 37 e lei il negozio al numero 14. Quando Maddalena
voleva un consiglio, mi telefonava e in cinque minuti ero da lei».
Lei è stata una
pioniera nella direzione artistica delle aziende di design in cui ha dettato
una linea d’azione…
«Non so se sono stata una pioniera, ma
certamente avevo varie esperienze che mi aiutavano ad essere utile alle aziende».
Come è nata la
consulenza per lo stilista Elio Fiorucci?
«Elio Fiorucci era un personaggio veramente
straordinario. Nel 1967 in san Babila a Milano lo stilista aveva aperto il suo
primo negozio realizzato dalla scultrice Amalia del Ponte che tuttavia, pur
essendo bellissimo, non funzionava. Io ho fatto solo un intervento di
illuminazione con la luce alogena che allora si usava solo nell’industria
automobilistica. Al che Elio Fiorucci mi disse che vendeva il doppio da quando
io gli avevo disegnato questo sistema e da allora sono diventata sua consulente».


Ricorda qualche
aneddoto sull’uomo che ha reso Pop la moda italiana ?
«Con Elio Fiorucci abbiamo fatto dei viaggi
divertenti. Ricordo che a Londra avevamo
visto un ragazzo con un giubbotto straordinario, allora lo abbiamo seguito ed
Elio gli chiese di realizzarne una dozzina per il negozio. Con Fiorucci
succedevano cose curiose, ma tutte molto spontanee».
Come è nato il
divano Organic per De Sede amatissimo da Mick Jagger?
«Quel divano è frutto di un progetto
condiviso con Ueli Berger, Heinz Ulrich e Klaus Vogt. L’art director
di De Sede, Alfred Habluetzel, aveva l’incarico di ringiovanire la collezione e
ci chiese di fare delle proposte. Allora noi abbiamo deciso di lavorare insieme
e ci siamo molto divertiti nel disegnare il DS 600, mentre Ubald Klug si è
staccato dal gruppo e ha fatto il suo angolare».
Quale è stata
l’ispirazione del divano Organic DS 600 che si vede nei film di James Bond?
«Il divano DS 600 traduce il concetto che
non è quello di fare un mobile, ma un sistema che possa essere lungo o corto,
mosso o no, che poi ho sviluppato con i miei amici ed era molto meglio del mio “Senza
Fine” disegnato in precedenza per Zanotta».

Come ricorda la collaborazione con Ettore
Sottsass?
«Ettore Sottsass jr era un uomo fantastico
di grande intelligenza. Abbiamo progettato
insieme un allestimento per la Vistosi quando ero sua consulente. Avevo
in mente di fare qualcosa di simile all’operazione del vetro nordico, una
specie di immagine collettiva del vetro di Murano che poi non mi è riuscita. In
occasione dell’Eurodomus abbiamo realizzato un ambiente, che doveva essere
praticamente invisibile e che annullava le pareti, e lì appesi c’erano tutti i
pezzi di vetro muranesi».
Come andò quella
volta che ha disegnato gli arredi degli uffici di Walter Gürtler a Milano
inventando un sistema che Gio Ponti pubblicò su Domus?
«Con Walter Gürtler che era svizzero, di Basilea, come me, c’è
stata subito una simpatia. Mi commissionò la sistemazione degli uffici della
sua casa discografica, la Mercury, in via san Vittore a Milano. Non trovando
dei mobili che mi soddisfacevano li ho disegnati e li ho fatti realizzare da un
artigiano poi Bernini li ha prodotti. Gio Ponti ha pubblicato su Domus le foto
di questo sistema progettuale di design. Era il mio incontro con l’alluminio…».


Lei ama i progetti
aperti. Quale concetto sta alla base del suo design?
«Il design deve essere flessibile. Ho
sempre progettato le cose che mi servivano e che non c’erano sul mercato come il
letto da bambino che ho disegnato quando sono rimasta incinta. I lettini con le
aste in commercio mi sembravano delle piccole prigioni. Così ne ho realizzato uno
con le strisce di tela».
Lei ha disegnato
anche case e sistemi abitativi. In cosa è stata più innovativa?
«Tra le varie cose più che del restauro
degli edifici mi sono occupata spesso di capovolgerne l’abitabilità. Una volta
gli ambienti rappresentativi davano sulla strada e i servizi si affacciavano sul
giardino. Io ho ribaltato questa logica facendo il contrario».
Come è nata la sua
bolla o meglio la “Bola Grande” per Vistosi in vetro di Murano?
«Senza i vetrai bravissimi che ho
incontrato in Laguna non avrei fatto nessuna bolla. Artemide mi ha mandato a
Venezia per fare la lampada Vacuna ed è lì che ho scoperto il vetro e di non
sapere niente di quello che credevo di sapere. Vistosi mi ha introdotto a
Murano e ho conosciuto i maestri soffiatori che devono cominciare da giovani
per sviluppare i polmoni adatti per fare questo lavoro tutta la vita. Chi
realizza il centrotavola in vetro soffiato, di 62x60 cm, deve essere davvero
bravo!»
La “Bola Grande”
si trova nei musei…
«Al Moma di New York ce n’è una. La Bola
Grande è in vari musei anche in Germania, mentre in Svizzera ancora non c’è».
