«Cucinare l’Amazzonia significa proteggerla»: Felipe Schaedler porta la foresta in tavola a Sapori Ticino

Felipe Schaedler non porta semplicemente piatti in tavola, porta con sé un intero mondo. La sua cucina è un viaggio dentro l’Amazzonia, un territorio che non è solo una foresta, ma un universo di sapori, saperi e tradizioni. Nato nel sud del Brasile, da una famiglia di origine tedesca, si è trasferito a Manaus da adolescente e lì ha incontrato il suo destino. «A quattordici anni non sapevo ancora cosa volessi fare nella vita. Pensavo di studiare diritto. Poi mi sono imbattuto nella ricchezza degli ingredienti amazzonici e non ho avuto dubbi: quella era la mia strada», racconta. Nel 2009 ha aperto Banzeiro, ristorante che ha dato voce a una cucina fino ad allora quasi invisibile sulla scena nazionale, ottenendo premi e riconoscimenti, fino all’Ordine al Merito Culturale ricevuto dal governo brasiliano. Oggi gestisce tre locali tra Manaus e San Paolo, ma soprattutto continua a portare avanti una missione che per lui va oltre la gastronomia: far conoscere e rispettare l’Amazzonia.

Lo abbiamo incontrato durante il suo viaggio in Ticino come protagonista di tre serate di S.Pellegrino Sapori Ticino 2025: il 29 settembre allo Swiss Diamond Hotel di Vico Morcote con Egidio Iadonisi, il 2 ottobre al Moncucchetto insieme ad Andrea Muggiano, e stasera – 5 ottobre – al Seven Toc Toc con Nicola Leanza.
Chef Schaedler, per lei queste serate hanno un significato
speciale.
Sì, perché è la mia prima volta ai fornelli in Europa.
Portare i miei ingredienti qui, dall’altra parte dell’oceano, è qualcosa che
ricorderò per sempre. È un onore far parte di Sapori Ticino: l’atmosfera è
amichevole, lo scambio con gli altri chef è naturale, sembra quasi di cucinare
con vecchi amici. Non si tratta soltanto di far assaggiare qualcosa di nuovo,
ma di creare un dialogo vero, fatto di curiosità e rispetto reciproco.
E pensare che è stato proprio un professore svizzero a
convincerla che la gastronomia amazzonica potesse avere dignità internazionale.
Cosa ha significato quell’incontro?
Ha cambiato tutto. All’epoca parlare di cucina amazzonica
era quasi un paradosso: veniva considerata popolare, non certo alta
gastronomia. Lui invece mi ha mostrato che quegli ingredienti erano un tesoro,
che andavano studiati e raccontati con orgoglio. Mi ha insegnato a guardare
alle tradizioni locali come a un patrimonio e a capire che il futuro della
cucina brasiliana passava proprio da lì. Per questo dico che devo vent’anni
della mia vita all’Amazzonia: ho dedicato tempo ed energie a conoscere le comunità
indigene, a osservare le loro tecniche, a trasformare quel sapere in piatti
capaci di parlare anche fuori dal Brasile. E cucinare in questi giorni in
Svizzera, in un certo senso, per me rappresenta anche la chiusura di un cerchio.

Ha portato più di cento chili di ingredienti dal Brasile.
Cosa ha voluto proporre?
Un pezzo di Amazzonia. Ci sono le formiche saúva raccolte
dalle comunità native, con un aroma sorprendente che ricorda il lemongrass; il
tucupi, un succo fermentato di manioca che è parte essenziale della tradizione
amazzonica; tuberi rustici, frutti come il cupuaçu, spezie che qui in Europa
non si sono mai viste. Non mi interessava adattare la mia cucina ai gusti
europei: volevo che arrivasse autentica, anche con le sue asperità. Ogni piatto
vuole essere un ponte tra le mie radici e chi siede a tavola. È come aprire una
finestra sulla foresta.

In Europa c’è curiosità ma anche sorpresa davanti a
ingredienti come le formiche. Come reagisce il pubblico?
Di solito con apertura, anche se a volte con un po’ di
timore. Durante i Mondiali di calcio in Brasile, nel 2014, ho iniziato a
proporle ai turisti italiani e inglesi: erano affascinati. La verità è che non
le uso per provocare, ma per il loro gusto. Hanno un profumo che richiama erbe
fresche e agrumi, ma senza aggiungere nulla. Quando i clienti le provano,
spesso sorridono, perché è una scoperta. Qui in Ticino ho visto lo stesso
spirito: le persone sono arrivate curiose, pronte a sperimentare. È questo che
rende l’esperienza unica: vedere qualcuno che oltrepassa i propri limiti e
scopre un sapore nuovo.

La sua cucina non è solo ricerca del gusto, ma anche un atto
culturale e politico.
Assolutamente. L’Amazzonia è la mia casa, la mia vita. Ogni
giorno lavoro per farla conoscere meglio. Se le comunità locali hanno modo di
valorizzare i prodotti della foresta, li proteggeranno di più. Se invece vivono
nella povertà, è facile che cedano alle pressioni di chi vuole sfruttare il
legno o la terra. Creare un’economia sostenibile legata al cibo è fondamentale
per salvaguardare l’Amazzonia. Io cerco di dare il mio contributo mostrando che
questi ingredienti hanno valore e dignità. Per me cucinare non è soltanto
nutrire: è anche generare consapevolezza.

Che impressioni ha avuto dal Ticino in questi giorni?
È un posto bellissimo. Ho passeggiato per Lugano, visto il
tramonto sul lago: mi ha colpito la calma, la natura curata, il ritmo diverso
rispetto al Brasile. A Manaus tutto è più caotico, qui invece ho trovato un
tempo lento, che ti permette di osservare meglio. Con gli chef ticinesi ho
trovato subito un’intesa: anche se le nostre culture sono lontane, ci unisce la
stessa passione per cucinare e condividere. Ho sentito una vicinanza umana che
non dimenticherò.

Cosa spera che resti agli ospiti delle cene di Sapori
Ticino?
Vorrei due cose. La prima è che riflettano: che si chiedano
da dove viene il cibo, quanto l’Amazzonia sia importante per il mondo. La
seconda è che imparino qualcosa di nuovo. Non importa se tutti amano i miei
ingredienti: l’importante è che li conoscano. Che possano dire: ho assaggiato
il tucupi, ho sentito il profumo del cupuaçu. Sapere cosa mangiamo è il primo
passo per rispettarlo. Voglio che gli ospiti tornino a casa non solo con un
ricordo di gusto, ma anche con una piccola consapevolezza in più. Questo per me
è molto più importante di qualsiasi applauso.
