Gusto

Il Ticino ha il suo primo stellato vegetariano: la nuova rotta dell’Osteria del Centro

Tra orti, produttori locali e un menu che cambia con la luce e la pioggia, Piero Roncoroni porta la sua cucina verso un’identità compiuta e radicale
Mattia Sacchi
16.09.2025 08:48

All’Osteria del Centro di Comano le stagioni non sono un concetto astratto, ma un ingrediente vivo. Basta qualche giorno di pioggia o un’improvvisa corrente fresca per cambiare il volto di un piatto: il pomodoro diventa più carnoso, la zucchina si fa meno estiva, la zucca entra in scena prima del previsto. È dentro questa sensibilità che si inserisce la scelta di Piero Roncoroni: eliminare la carne dal menu e affidarsi interamente ai vegetali. Dal 2 settembre, il ristorante premiato con la prima stella verde in Ticino diventa così anche il primo stellato vegetariano del Cantone.

Che sensazione c’è in cucina dopo la pausa?
«Ricominciare è sempre bello. Tre settimane di chiusura ci hanno svuotato la mente: stamattina abbiamo guardato i prodotti e faceva fresco. Non avevamo più voglia di granite e piatti freddi. I vegetali sono gli stessi di tre settimane fa – pomodoro, zucchina, melanzana – ma l’aria è cambiata e noi ci adattiamo. Per me il chilometro zero non basta: un ortaggio cambia molto a seconda di quanta acqua o sole ha preso. Il nostro compito è rispettare queste condizioni e trasformarle in piatti che restino sempre d’eccellenza. Così entrano la cipolla, la zucca che comincia, la pannocchia di fine estate. Rifare da zero ci costringe a rimettere a fuoco ricette e abbinamenti.»

Come si è arrivati al 100% vegetariano e cosa cambia nel menu?
«È stato un percorso fatto a tappe, non una decisione improvvisa. Sin dall’apertura abbiamo scelto di non proporre pesce di mare: non avrebbe avuto senso portarlo fin qui, lontano dal luogo in cui nasce, quando abbiamo già laghi e montagne che ci offrono tanto. Accanto alle verdure, però, c’era sempre la possibilità di concludere con un piatto di carne: un modo per rassicurare chi era più scettico. Col tempo le cose sono cambiate. All’inizio le due opzioni si dividevano a metà, poi i numeri hanno preso un’altra piega: 85% dei clienti sceglieva il vegetale, solo il 15% la carne. Molti, tornati una seconda volta, non la chiedevano più. Ci siamo resi conto che il percorso vegetale era ormai diventato la nostra vera identità, e che la carne non era più necessaria né per noi né per loro. Dal 2 settembre il formato resta lo stesso – cinque o sette portate – ma tutto il menu è costruito intorno alle verdure, senza più eccezioni.»

C’è anche una ragione etica e pratica nel togliere la carne?
«Sì. Ho sempre comprato l’animale intero: venti chili da lavorare in tagli diversi, con continui riadattamenti del piatto. Vendendo poca carne quel modello non aveva più senso; e nemmeno sacrificare cinquanta faraone per usare solo il petto. La verità è che, mentre la carne diminuiva, il menu migliorava. Lo vedo nei volti, nella concentrazione con cui si ascoltano le verdure.»

Il rapporto con i produttori ticinesi è centrale nel vostro racconto.
«È un dialogo. Alcuni arrivano con quello che c’è, punto. Altri, come Stefano Cattori di Linea Bio Verde o gli amici della cooperativa Seminterra, mi chiamano: “Quest’anno le mele cotogne sono bellissime”. Io me le riservo, le aspetto, le rispetto. Se non c’è, non vado a cercarlo dall’altra parte del mondo. Non è questione di dogmi: capita di usare anche prodotti che vengono da lontano, come la vaniglia. Ma un frutto coltivato qui, raccolto al suo punto, ha un’energia diversa. È quell’ingrediente invisibile che senti nel piatto.»

“Luogo” come ingrediente: un esempio concreto?
«Pensi alla fondue con il miglior Gruyère, mangiata in montagna d’estate, quando il latte è al suo apice: è perfetta lì. Sposti tutto a sud e non è più la stessa cosa. Vale anche per il banano di montagna che ho scoperto: in America Latina sarà straordinario, ma qui, raccolto al momento giusto, ha un’intensità sorprendente. È la passione di chi lo coltiva e lo porta fino a noi a fare la differenza: quell’energia arriva nel piatto.»

Cosa succede in sala con la nuova rotta?
«Resta mia moglie, resta Edoardo con una carta di vini naturali che, alle nostre latitudini, è unica. Non imponiamo nulla: spieghiamo, facciamo assaggiare, cambiamo se non piace. L’ospitalità è un sorriso e una tavola apparecchiata con cura. Molti clienti sono ticinesi – Valle Maggia, Leventina, Mendrisiotto – ed è una gioia vederli riconoscersi da un tavolo all’altro.»

Perché niente pasta o risotto?
«Identità e onestà. La mia formazione mi ha portato altrove: San Sebastián, Barcellona. Qui pasta e risotto li trovi ovunque, spesso benissimo. Io cosa so fare davvero? Un’altra cosa. E poi c’è un aspetto pedagogico: se scrivi “pasta” in carta, metà dei clienti sceglie quella e addio percorso. Oggi il menu è a sorpresa nell’ordine, non negli ingredienti: diciamo che cosa entra in cucina, non come arriverà al tavolo. Così la verdura racconta senza gerarchie.»

Il processo creativo: più istinto o metodo?
«All’inizio cercavo io i prodotti, passando ore con i contadini; poi sono arrivate le bambine, la mia splendida famiglia, e i prodotti hanno trovato noi. Capita che qualcuno arrivi timido con una cassetta e un frutto meraviglioso, e ti racconti come mangiarlo. A Barcellona, dove ho lavorato con Xavier Pellicer – nel ristorante che oggi è considerato il migliore vegetariano al mondo – lui mi disse una volta: “Piero, cucina con quello che c’è”. È rimasto il nostro metodo: stagione dopo stagione, giorno dopo giorno, senza compromessi.»

Come reagisce l’onnivoro al menu 100% vegetale?
«Con curiosità e fiducia. Prima molti ordinavano la carne quasi come rassicurazione: dopo quattro portate di verdure pensavano “almeno c’è il pezzo di carne”. Poi tornavano e scoprivano che non serviva: l’esperienza era già completa. Oggi nessuno ci chiede ciò che manca: ci chiedono sorpresa, coerenza, gusto. Non vogliamo convertire nessuno: vogliamo che chi esce da qui si senta soddisfatto e leggero, come dopo un viaggio ben fatto.»

La stella verde ha pesato sul percorso?
«Ti porta al ristorante la prima volta. Ma ti fa tornare solo se sei credibile. Per noi è stato un riconoscimento di coerenza: sostenibilità non come etichetta, ma pratica quotidiana – filiera corta, sprechi ridotti, menu che cambia con il tempo. Non abbiamo mai venduto il progetto come “bio”, eppure il 90% lo è. Le etichette alzano muri; noi preferiamo aprire porte.»

Cosa troverà chi viene adesso?
«Troverà la continuità di un percorso che cresce insieme a noi. Un menu che parte leggero e si scalda con l’autunno, stoviglie pensate per accompagnare, un ultimo boccone da scegliere – dolce o salato – perché ognuno possa chiudere come sente. Niente proclami: solo l’invito a lasciarsi sorprendere, con le verdure al centro. All’Osteria del Centro»

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