Il Ticino ha il suo primo stellato vegetariano: la nuova rotta dell’Osteria del Centro

All’Osteria del Centro di Comano le stagioni non sono un concetto astratto, ma un ingrediente vivo. Basta qualche giorno di pioggia o un’improvvisa corrente fresca per cambiare il volto di un piatto: il pomodoro diventa più carnoso, la zucchina si fa meno estiva, la zucca entra in scena prima del previsto. È dentro questa sensibilità che si inserisce la scelta di Piero Roncoroni: eliminare la carne dal menu e affidarsi interamente ai vegetali. Dal 2 settembre, il ristorante premiato con la prima stella verde in Ticino diventa così anche il primo stellato vegetariano del Cantone.
Che sensazione c’è in cucina dopo la pausa?
«Ricominciare è sempre bello. Tre settimane di chiusura ci
hanno svuotato la mente: stamattina abbiamo guardato i prodotti e faceva
fresco. Non avevamo più voglia di granite e piatti freddi. I vegetali sono gli
stessi di tre settimane fa – pomodoro, zucchina, melanzana – ma l’aria è
cambiata e noi ci adattiamo. Per me il chilometro zero non basta: un ortaggio
cambia molto a seconda di quanta acqua o sole ha preso. Il nostro compito è
rispettare queste condizioni e trasformarle in piatti che restino sempre d’eccellenza.
Così entrano la cipolla, la zucca che comincia, la pannocchia di fine estate.
Rifare da zero ci costringe a rimettere a fuoco ricette e abbinamenti.»
Come si è arrivati al 100% vegetariano e cosa cambia nel
menu?
«È stato un percorso fatto a tappe, non una decisione
improvvisa. Sin dall’apertura abbiamo scelto di non proporre pesce di mare: non
avrebbe avuto senso portarlo fin qui, lontano dal luogo in cui nasce, quando
abbiamo già laghi e montagne che ci offrono tanto. Accanto alle verdure, però,
c’era sempre la possibilità di concludere con un piatto di carne: un modo per
rassicurare chi era più scettico. Col tempo le cose sono cambiate. All’inizio
le due opzioni si dividevano a metà, poi i numeri hanno preso un’altra piega:
85% dei clienti sceglieva il vegetale, solo il 15% la carne. Molti, tornati una
seconda volta, non la chiedevano più. Ci siamo resi conto che il percorso
vegetale era ormai diventato la nostra vera identità, e che la carne non era
più necessaria né per noi né per loro. Dal 2 settembre il formato resta lo
stesso – cinque o sette portate – ma tutto il menu è costruito intorno alle
verdure, senza più eccezioni.»

C’è anche una ragione etica e pratica nel togliere la carne?
«Sì. Ho sempre comprato l’animale intero: venti chili da
lavorare in tagli diversi, con continui riadattamenti del piatto. Vendendo poca
carne quel modello non aveva più senso; e nemmeno sacrificare cinquanta faraone
per usare solo il petto. La verità è che, mentre la carne diminuiva, il menu
migliorava. Lo vedo nei volti, nella concentrazione con cui si ascoltano le
verdure.»
Il rapporto con i produttori ticinesi è centrale nel vostro
racconto.
«È un dialogo. Alcuni arrivano con quello che c’è, punto.
Altri, come Stefano Cattori di Linea Bio Verde o gli amici della cooperativa
Seminterra, mi chiamano: “Quest’anno le mele cotogne sono bellissime”. Io me le
riservo, le aspetto, le rispetto. Se non c’è, non vado a cercarlo dall’altra
parte del mondo. Non è questione di dogmi: capita di usare anche prodotti che
vengono da lontano, come la vaniglia. Ma un frutto coltivato qui, raccolto al
suo punto, ha un’energia diversa. È quell’ingrediente invisibile che senti nel
piatto.»
“Luogo” come ingrediente: un esempio concreto?
«Pensi alla fondue con il miglior Gruyère, mangiata in
montagna d’estate, quando il latte è al suo apice: è perfetta lì. Sposti tutto
a sud e non è più la stessa cosa. Vale anche per il banano di montagna che ho
scoperto: in America Latina sarà straordinario, ma qui, raccolto al momento
giusto, ha un’intensità sorprendente. È la passione di chi lo coltiva e lo
porta fino a noi a fare la differenza: quell’energia arriva nel piatto.»
Cosa succede in sala con la nuova rotta?
«Resta mia moglie, resta Edoardo con una carta di vini
naturali che, alle nostre latitudini, è unica. Non imponiamo nulla: spieghiamo,
facciamo assaggiare, cambiamo se non piace. L’ospitalità è un sorriso e una
tavola apparecchiata con cura. Molti clienti sono ticinesi – Valle Maggia,
Leventina, Mendrisiotto – ed è una gioia vederli riconoscersi da un tavolo
all’altro.»
Perché niente pasta o risotto?
«Identità e onestà. La mia formazione mi ha portato altrove:
San Sebastián, Barcellona. Qui pasta e risotto li trovi ovunque, spesso
benissimo. Io cosa so fare davvero? Un’altra cosa. E poi c’è un aspetto
pedagogico: se scrivi “pasta” in carta, metà dei clienti sceglie quella e addio
percorso. Oggi il menu è a sorpresa nell’ordine, non negli ingredienti: diciamo
che cosa entra in cucina, non come arriverà al tavolo. Così la verdura racconta
senza gerarchie.»

Il processo creativo: più istinto o metodo?
«All’inizio cercavo io i prodotti, passando ore con i
contadini; poi sono arrivate le bambine, la mia splendida famiglia, e i
prodotti hanno trovato noi. Capita che qualcuno arrivi timido con una cassetta
e un frutto meraviglioso, e ti racconti come mangiarlo. A Barcellona, dove ho lavorato con Xavier Pellicer
– nel ristorante che oggi è considerato il migliore vegetariano al mondo – lui
mi disse una volta: “Piero, cucina con quello che c’è”. È rimasto il nostro
metodo: stagione dopo stagione, giorno dopo giorno, senza compromessi.»
Come reagisce l’onnivoro al menu 100% vegetale?
«Con curiosità e fiducia. Prima molti ordinavano la carne
quasi come rassicurazione: dopo quattro portate di verdure pensavano “almeno
c’è il pezzo di carne”. Poi tornavano e scoprivano che non serviva:
l’esperienza era già completa. Oggi nessuno ci chiede ciò che manca: ci
chiedono sorpresa, coerenza, gusto. Non vogliamo convertire nessuno: vogliamo
che chi esce da qui si senta soddisfatto e leggero, come dopo un viaggio ben
fatto.»
La stella verde ha pesato sul percorso?
«Ti porta al ristorante la prima volta. Ma ti fa tornare
solo se sei credibile. Per noi è stato un riconoscimento di coerenza:
sostenibilità non come etichetta, ma pratica quotidiana – filiera corta,
sprechi ridotti, menu che cambia con il tempo. Non abbiamo mai venduto il
progetto come “bio”, eppure il 90% lo è. Le etichette alzano muri; noi
preferiamo aprire porte.»
Cosa troverà chi viene adesso?
«Troverà la continuità di un percorso che cresce insieme a
noi. Un menu che parte leggero e si scalda con l’autunno, stoviglie pensate per
accompagnare, un ultimo boccone da scegliere – dolce o salato – perché ognuno
possa chiudere come sente. Niente proclami: solo l’invito a lasciarsi
sorprendere, con le verdure al centro. All’Osteria del Centro»