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La cucina italiana è Patrimonio UNESCO, la comunicazione italiana, purtroppo, no

L’inno di Mogol e Al Bano, pensato per celebrare questo momento storico per l'Italia, diventa il caso emblematico di una comunicazione istituzionale che ogni volta si dimostra incapace di rendere giustizia al patrimonio che rappresenta
Mattia Sacchi
10.12.2025 20:42

La cucina italiana è ufficialmente Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. Un risultato storico, che celebra un modo di vivere prima ancora che di cucinare: la trasmissione familiare dei saperi, il rispetto per gli ingredienti, la condivisione come gesto identitario. Un traguardo autentico, perché fondato su milioni di tavole apparecchiate ogni giorno, nei paesi e nelle città, nelle case come nei ristoranti.

Eppure, proprio mentre il mondo applaude, l’Italia riesce ancora una volta a inciampare nel proprio racconto. Non nella sostanza – che nessuno mette in discussione – ma nella forma, cioè nella capacità di rappresentarsi. Ed è qui che la distanza tra eccellenza reale e narrazione istituzionale diventa imbarazzante.

La cucina italiana è patrimonio UNESCO, la comunicazione che la accompagna, quella no. Affatto.

L’inno «Vai Italia», ideato per sostenere la candidatura, è l’ultimo episodio di una lunga serie di scelte comunicative deboli, per usare un eufemismo. Scritta da Mogol, gigante della canzone  per gli italofoni ma poco identificabile fuori dai confini; «Vai Italia» è cantata dall’inconfondibile voce di Al Bano – senza ironia lui veramente ambasciatore della musica italiana del mondo. Peccato solo che i suoi vocalizzi e i «Vai» emessi a ripetizione in modo quasi disturbante sovrastino la voce dei 50 bambini dei cori dell’Antoniano e di Caivano che lo dovrebbero accompagnare ma che invece vengono relegati a una coreografia di una banalità sconfortante.  Il tutto confezionato da una spessa patina di cringe, con un’estetica che appare datata e incapace di dialogare con i linguaggi visivi contemporanei.

L’intento era nobile. Il risultato, però, rivela un’incapacità strutturale: l’Italia fatica a produrre spot istituzionali moderni, credibili, competitivi. Ogni volta che prova a raccontarsi, la narrazione si appiattisce su stereotipi logori, linguaggi datati, testimonial che parlano quasi esclusivamente al pubblico domestico. Una comunicazione ripiegata su se stessa che non considera davvero chi dovrebbe raggiungere.

Non si tratta di un caso isolato. La campagna «Open to meraviglia» del 2023 ne è stata l’esempio più clamoroso: la Venere trasformata in influencer, gli sfondi girati in Slovenia, la difesa dell’operazione che insisteva nel presentare come bozza un materiale lanciato in conferenza stampa. L’intenzione dichiarata era di proporre un’Italia pop e accessibile; il risultato è stato un cortocircuito tra forma e contenuto, con simboli storici utilizzati come figurine intercambiabili e una strategia digitale incapace di reggere l’impatto della viralità.

A ciò si aggiungono altri episodi come la Liguria promossa da Elisabetta Canalis affacciata su Los Angeles: lo spot di una regione che quasi non compare, affidato a una testimonial che appartiene, per biografia e immaginario, a tutt’altro scenario. E anche i privati sembrano incapaci di raccontare a dovere le eccellenze italiane: come dimenticare il caso Renatino del Parmigiano Reggiano, dove uno storytelling di taglio cinematografico si è trasformato in una celebrazione involontaria dello sfruttamento lavorativo, nel quale un dipendente dell’azienda racconta felice di lavorare ogni giorno dell’anno e che per questo non ha mai fatto una vacanza in vita sua, evidenziando quanto sia rischioso ignorare il linguaggio e la sensibilità dei media digitali.

Non è soltanto una questione di gusto. È una questione di competenze.

La comunicazione istituzionale italiana continua a confondere promozione con nostalgia, racconto con iconografia, strategia con sentimentalismo. È come se il Paese oscillasse costantemente fra l’ansia di apparire moderno e la tentazione di rifugiarsi in un immaginario che non dialoga più con il presente.

Il paradosso è evidente: si parla di un Paese dalla potenza creativa riconosciuta, che esporta design, moda, cinema d’autore, architettura, fotografia. E che tuttavia fatica a costruire un racconto visivo all’altezza della propria cultura gastronomica. La cucina italiana entra nel pantheon UNESCO per la sua capacità di tramandare valori profondi e universali; lo storytelling pubblico che dovrebbe accompagnarla resta invece frenato da codici narrativi superati.

Eppure, proprio in queste ore la rivista «La Cucina Italiana» ha celebrato lo storico evento con un linguaggio molto diverso: brevi contributi video di alcuni tra gli chef italiani più noti, girati nei loro spazi di lavoro, senza artifici né scenografie. Una comunicazione semplice, diretta, costruita su volti, gesti e parole di chi la cucina italiana la rappresenta davvero. Un approccio più aderente al presente, più comprensibile al pubblico globale e, soprattutto, più credibile. E che dimostra che basta un’idea semplice per realizzare qualcosa di fatto bene.

Ora che la cucina italiana ha ricevuto un riconoscimento senza precedenti, questo potrebbe essere il momento per ripensare seriamente il modo in cui il Paese sceglie di raccontarsi. Senza autocompiacimento, senza provincialismi, senza rifugiarsi in formule retoriche che finiscono per indebolire, invece di rafforzare, il messaggio.

La cucina italiana oggi entra nella storia. Sarebbe bello che, un giorno, anche la comunicazione istituzionale imparasse a farlo.

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