La storia

Le tradizioni ticinesi per un Natale dolce

Prima che arrivasse il panettone nelle case della Svizzera italiana si mangiava il «miccone nostrano», accompagnato dal «caollatte» e seguito dai «pertugalli» (le arance)
Una confezione con dolci provenienti da Milano e spedita a Bellinzona
Franco Lurà
16.12.2019 16:46

«Il panettone alla milanese alto, fortemente lievitato, era poco diffuso. Si mangiava invece il miccone nostrano, un panettone di pasta più dura, ma ricca, oltre che di sultanina, anche di noci di mandorle e di pignoli, un dolce nostrano, molto saporito. Ma c’era di più, la gran sorpresa attesa da grandi e piccini, il caollatte, una crema semplice, squisita, per preparar la quale non si facevano economie... Il caollatte era difficile da farsi, e qualche buona mamma, per non correre troppi rischi, preparava invece uno zabaglione caldo con uova, marsala e vino bianco. Ma non è finita qui. Un gran piatto di frutta: pertugalli (come allora si chiamavano le arance), mandarini, mele renette, uva passa, e ogni sorta di frutta secca: noci, nocciuole, fichi secchi e perfino datteri;... per finire c’era ancora un pezzetto di grana, parmigiano stravecchio e gustosissimo, che si prendeva per far buona bocca».

Così scriveva sull’Almanacco ticinese del 1964 Giovanni Regazzoni, descrivendo il menu natalizio della classe benestante luganese, ben diverso da quello che contraddistingueva l’offerta culinaria della maggior parte della popolazione, in particolare quella dei ceti meno fortunati che nei casi più drammatici, come è realmente accaduto in alcuni villaggi delle nostre valli alpine, dovevano accontentarsi anche in questa ricorrenza solo di pane e caffè o di un po’ di polenta con della formaggella di capra.

Una pubblicità della ditta Francesco Lodigiani, attiva a Bellinzona dal 1901 al 1934
Una pubblicità della ditta Francesco Lodigiani, attiva a Bellinzona dal 1901 al 1934

Ma torniamo ai nostri dolci, per dire che oltre al panettone e al caollatte, prelibatezza che viene offerta ancor oggi in un ristorante leventinese attento alle nostre tradizioni, altre leccornie si ammannivano in varie località della Svizzera italiana: in Mesolcina il confécc, sorta di croccante preparato con miele cotto, zucchero e vino, a Tesserete la cusciòra, focaccia spesso ottenuta dai resti della pasta del pane, con aggiunta di zucchero, noci e nocciole, ad Airolo i rin, specie di pane dolce con le uvette, in tutta la Leventina i panspézzi, dolci con un ripieno di noci, miele, spezie e liquori, preparati con appositi stampi spesso decorati con motivi natalizi, e i crèfli, tipo di biscotti, che a Giornico venivano fatti con un ripieno simile a quello dei panspézzi del resto della valle. Era ed è invece di regola acquistato il torrone, arrivato nella Svizzera italiana dalla limitrofa Lombardia.

È però pur vero che a farla da padrone al momento della conclusione del pasto natalizio, è ancora il panettone, che ci pare offrire buona resistenza anche al più recente Pandoro, che paga lo scotto di un’anemica e dolorosa assenza di uvette e canditi. Ma, si sa, de gustibus...

Alle rustiche e casalinghe preparazioni di un tempo, dai nomi cangianti a seconda dei luoghi (micón, pan di fèst, pan da Denedaa, pagn da nus...), si contrappone dunque il panettone moderno, d’origine milanese e dalla caratteristica forma di cupola, a base di farina, lievito, burro, zucchero, frutta candita, uva sultanina, tuorli d’uovo, ormai non più preparato in casa, ma prodotto da fornai professionisti e comperato dal panettiere o nei negozi di alimentari. Il suo consumo è stato talmente associato alla festività da costituire spunto per vari modi di dire: quéll lí al riva mía a mangiá l panetón, quello non arriva a mangiare il panettone: non sopravviverà, o non resisterà in un determinato ruolo, fino a Natale, l’a minga digerii al panatón da Natál, non ha digerito il panettone di Natale: ha fatto indigestione, sentenziano in quel di Bellinzona.

Il panettone compare anche in un’espressione che indica insofferenza. Difatti per indicare che qualcuno si sta rivelando troppo noioso, fastidioso e inopportuno, si dice che quéll lí al fa vigní sü ul panetún da Natál, quello fa vomitare il panettone di Natale. Dobbiamo augurarci che ciò non avvenga, soprattutto in questo periodo di festa, in cui rivalità, inimicizie e attriti dovrebbero, o meglio, come sarebbe opportuno, devono lasciare il posto a uno spirito di condivisione e di fratellanza, in un’atmosfera di spiritualità che costituisce la vera essenza e il profondo significato del periodo natalizio. Da non dimenticare anche fra le dolci blandizie di queste giornate.

(Le riproduzioni sono tratte dal volume «Natale», di Franco Lurà, edito dal Centro di dialettologia e di etnografia).