Quando si spegne il fuoco dell’osteria: «È stata la mia vita, lascio senza rimpianti»

C’è un silenzio particolare nelle osterie quando chiudono. Non è solo il rumore delle stoviglie che si spegne o il tintinnio dei bicchieri che smette di rimbombare nelle sale. È il silenzio di una storia che si ferma, dopo anni in cui ogni giorno era fatto di voci, di fuochi accesi, di piatti caldi portati al tavolo. All’Osteria Luis di Seseglio quel silenzio comincerà il 24 maggio, quando Antonio Cavadini, l’ultimo degli osti, dopo 46 anni servirà il suo ultimo pasto.
Antonio, ci siamo quasi. Com’è sentirsi alla fine di un percorso così lungo?
«Mi sento bene, con la testa serena. C’è un po’ di malinconia, ma è normale. Non è tristezza. È la sensazione che si prova quando chiudi qualcosa di grande, sapendo che hai dato tutto. Dopo 46 anni era giusto fermarsi. In realtà sono in pensione da tre, ma ho continuato perché mi sembrava corretto farlo. Ora ho trovato a chi lasciare l’attività e posso farlo col sorriso».
Com’è iniziata questa storia lunga quasi mezzo secolo?
«Nel 1979, a Ligornetto. Io e Yvonne, che allora era la mia fidanzata, avevamo un sogno: aprire una nostra osteria. E lo abbiamo fatto alla Rinascente, che oggi non c’è più. Non c’erano i social per farsi conoscere, solo passaparola e voglia di fare. Era dura: io di giorno facevo il manovale con lo zio muratore, e la sera tornavo in cucina. Ma la voglia era tanta, in quegli anni smuovevo pure le montagne».
Dopo 3 anni il trasferimento a Chiasso.
«Abbiamo avuto l’occasione di rilevare il Rampa, una vera osteria di paese. C’erano i tavoli con i vecchietti, il gioco delle carte, le bocce. Un ambiente semplice ma vivo. Abbiamo cominciato con quello che sapevamo: cucinavamo seguendo le ricette delle mamme, i consigli delle zie. C’era la voglia di imparare, anche se alle volte facevo dei casini: ricordo una volta che presi delle galline in offerta credendole polli. Le misi arrosto. Alle dodici arriva un vecchietto, gli porto il piatto e mi fa: «Antonio, questa è gallina!». Aveva ragione. Ma si comincia così».
Nel 1990 l’arrivo a Seseglio, alla Pace. È lì che la storia ha preso forma.
«Una bella storia, ma all’inizio non è stato facile. Era un ambiente molto rustico, il locale era sempre semivuoto. Poi guardavo la Vecchia Osteria dove c’era Battilana, un esercente storico della zona, e vedevo le macchine in coda. Allora capii che dovevo fare qualcosa in più: ho sistemato l’ambiente, ho messo la griglia fuori, anche con la neve. Abbiamo iniziato a fare la Fiorentina da un chilo, una novità in Ticino. Mio figlio, che aveva dodici o tredici anni, ci dava una mano: d’inverno lo trovavi fuori con il cappuccio, a dare un’occhiata alla brace. Era un lavoro di famiglia, nel senso pieno del termine».
Che tipo di cucina offrivate?
«Una cucina vera, fatta di cose buone, senza fronzoli. Piatti che venivano da una memoria collettiva. Il capretto al forno, la rustisciada, i brasati. Nel nostro bel camino poi era immancabile la polenta. E la sella di capriolo: la portavo in sala, la tagliavo davanti al cliente, in silenzio. Era una specie di rito. Non c’era bisogno di dire nulla, bastava guardarsi. Quelli sono i momenti in cui capisci che stai facendo la cosa giusta».
In cucina chi teneva le redini?
«Yvonne, senza alcun dubbio. Io ero quello che stava in sala, parlava con i clienti, prendeva qualche colpo e qualche complimento. Ma lei era la testa e le mani della cucina. Aveva un’attenzione ai dettagli che io non ho mai avuto. È giusto riconoscerlo. Poi abbiamo avuto anche dei cuochi bravi: Stefano Mangili, ad esempio, un giovane con idee fresche, passato anche dall’America, che ci ha insegnato davvero tanto. E negli ultimi Luca Bassan, che veniva da Pavia e aveva lavorato in ambienti stellati. Abbiamo sempre trattato il nostro personale come fossimo in famiglia, per questo sono stati tanti anni con noi e abbiamo ancora un ottimo rapporto».
Con il personale magari no, tuttavia non è mai rimasto fermo a lungo. Le osterie chiuse sembravano attirarla.
«Ho sempre avuto questa attrazione per i locali spenti. Passavo davanti, guardavo dentro e pensavo: «Qui possiamo farcela». È successo con Ronco Grande, e poi con la Locanda degli Eventi a Novazzano. Quella volta ero a passeggio con il cane, ho visto lo stabile vuoto e me ne sono innamorato subito, aprendo poi nel 2001. Abbiamo investito tanto, ma ne è valsa la pena. Lì abbiamo fatto 13 anni bellissimi, anche con mio figlio che nel frattempo era diventato cuoco e ci ha affiancati. Organizzavamo catering, fiere, eventi. Eravamo davvero sulla cresta dell’onda».
L’Osteria Luis a Seseglio è stato il capitolo finale.
«Un lungo e straordinario capitolo finale. Abbiamo trovato l’occasione giusta. L’osteria era libera. Abbiamo fatto qualche lavoro, rifatto la cucina, rimesso a posto tutto. E siamo ripartiti, ancora una volta. Questi ultimi undici anni all’Osteria Luis sono volati: avevamo trovato un equilibrio e facevamo numeri pazzeschi, ma senza mai tradire il nostro stile. Con piatti come la sella, il capriolo, i brasati. E quella polenta sempre sul camino, come una firma».
Ha sempre detto di non essere un ristoratore. In che senso?
«Per me il ristoratore organizza, fa i conti, studia le strategie. L’oste invece è lì. È presente. Ti accoglie, ti guarda negli occhi, sa chi sei. A volte ci discuti, ma poi si beve insieme. Io ho sempre avuto un carattere diretto. Se qualcosa non andava, lo dicevo. Ho perso dei clienti, sì, ma quelli che restavano erano veri. Con loro si parlava davvero».
Anche nella vita pubblica non è stato uno da mezze misure.
«Ho fatto parte del comitato degli esercenti a Chiasso, ho contribuito alla nascita di GastroMendrisiotto. E sono stato nella Rassegna gastronomica del Mendrisiotto per più di trent’anni. Poi mi hanno buttato fuori perché dicevo quello che pensavo. Non è un problema. Ho servito più piatti di quanti ne abbiano mai fatti alcuni di quelli che votavano contro di me. Ma va bene così. La coerenza ha un prezzo, e io l’ho sempre pagato volentieri».
Cosa resta, ora che si spengono i fornelli?
«Un modo di lavorare, credo. Di stare con la gente. Di cucinare senza paura del giudizio, ma con rispetto. Di accogliere, discutere, proporre. Oggi spesso si pensa più al contorno che al piatto. Noi invece abbiamo sempre cercato l’essenziale: il piatto giusto, il cliente ascoltato, la relazione che resta. Quello, forse, è il nostro piccolo lascito».
E adesso cosa farà l’ultimo degli osti?
«Giocherò a bocce. È una passione vera, che mi porto dietro da quando ero ragazzo. E poi viaggerò un po’ con mia moglie: ce lo siamo meritati. Ma non sparisco. Se qualche giovane vuole imparare, se c’è qualcuno che ha voglia di mettersi in gioco davvero e imparare le ricette della tradizione, io ci sono. Questo è un mestiere difficile, ma meraviglioso. Bisogna raccontarlo com’è, senza filtri. Se posso farlo, se posso trasmettere un po’ di quello che ho imparato, lo farò volentieri: così magari non sarò proprio l’ultimo…».