"La cultura? È diventata un karaoke"

La saggista croata Dubravka Ugresic non ha dubbi: "Oggi siamo ben oltre il narcisismo"
Tommy Cappellini
Tommy Cappellini
06.09.2014 06:00

In molti hanno cercato – senza trovarla – una definizione che racchiudesse il nostro tempo in una o due parole nitide e ficcanti cui non fosse necessario aggiungere né spiegazioni accademiche né sottotitoli. Sovente si è trattato di tentativi «a tavolino» di sociologia spicciola con vezzi da giornalismo: al netto dell'entusiasmo e della scaltrezza iniziali, il fallimento era prevedibile. Il miracolo espressivo «radical chic» firmato da Tom Wolfe nel 1970 è rimasto per l'appunto un unicum e pure allo stesso titolare non è riuscito di replicarlo lanciando, tre decenni dopo, un improbabile «marxismo rococò».

Come che sia: viviamo nel post-postmodernismo? Nel digimodernismo? Nel transumanismo? Nello pseudomodernismo? Tutti buchi nell'acqua: scarso appeal (come sempre con gli -ismi) e poca chiarezza di contenuti. Ma forse potrà funzionare e rimanere per un po' di tempo nell'aria l'ultimo, pressoché perfetto titolo della saggista croata Dubravka Ugre?i?: Cultura karaoke (Nottetempo edizioni, pagg. 408, euro 19,50). «È vero – dice Dubravka al "Corriere del Ticino" – sono stati fatti alcuni sforzi di definizione del nostro tempo, ma non hanno colpito nel segno. L'ultimo periodo culturale con un nome e una teoria precisi, validi per tutti, è stato il postmoderno».

Perché cultura karaoke?

«Ho scelto questa definizione perché mi sembra che il meccanismo del karaoke, parola che in giapponese significa "orchestra vuota", spieghi quello che sta accadendo nel modo più semplice possibile, senza perdersi in fronzoli».

Non è azzardato, forse per alcuni offensivo, ricondurre la nostra produzione culturale a qualcosa di fondamentalmente inautentico?

«Scusi, non è così? Gran parte della cultura contemporanea dipende da dispositivi tecnologici: Internet, iPhone, iPad, e-book, streaming e quant'altro. Penso anche ai mondi della musica e dell'arte. Spessissimo accade questo: milioni di persone che possiamo chiamare produttori di cultura anonimi, come lo è chi canta in un karaoke, usano un dispositivo tecnologico come stampella ed eseguono una canzone, o un progetto culturale che dir si voglia, su uno spartito o un pattern che qualcun altro ha reso precedentemente famoso».

Ma imitare è parte del nostro istinto. È pure per questa via che i bambini apprendono?

«Sicuro. Tuttavia lo sviluppo tecnologico ha creato un principio di democratizzazione della cultura e dell'arte per cui oggi ciascuno può essere una star, ciascuno sente di meritarlo, quindi può gettarsi nello show, avere il suo palcoscenico. Nelle vesti di amatore anonimo – chi fa karaoke non firma sul serio – puoi assemblare un film o un videoclip, compilare un romanzo e autopubblicarti, cantare canzoni altrui e avere subito la tua micro-audience, i tuoi supporter o, per usare un termine più specifico, i tuoi fandom. Per non parlare dell'archivio-mania su cui si basa questa cascata di file. Si tratta di un passo successivo al narcisismo. E il palcoscenico è Internet».

Dove, si dice, si può essere famosi per 15 minuti e infami per l'eternità...

«Sì, ma non sono una nemica del web. Sarebbe assurdo, tanto quanto essere nemici del telefono o della lavatrice. Non guardo la tivù perché è insensato essere costantemente disturbati dalla pubblicità, e non leggo giornali perché, specie quelli dell'est Europa, sono sempre più trash, sempre più porno. Però uso Internet e lo trovo valido».

Temevamo la solita tirata contro la tecnologia. Cosa ci dice?

«Ho tre cellulari. Li uso di rado».

Bene. Però non le sta simpatica la cultura-karaoke.

«Il pericolo è che nasconda una enorme possibilità di manipolazione. È uno stile, un cambiamento mentale e sociale, e senza dubbio politico, che modifica profondamente il modo in cui viviamo, lavoriamo e consumiamo. Tutto questo, pochi l'hanno notato, va di pari passo con la de-professionalizzazione in molte dimensioni della quotidianità: difficile trovare un vero "maestro" nei servizi di cui abbiamo bisogno. Tanti recitano la professionalità, ma non sono professionisti. In altre parole, fanno del karaoke. Pensiamo ai politici».

Parlano a manovella, ma è il loro mestiere, di rado si possono concedere lampi di singolarità...

«Sarà per questo che un'analisi della nostra cultura attraverso il concetto di karaoke risulta così irritante? Difatto molte maschere cadono».

C'è un intellettuale slavo, sloveno per l'esattezza, che è abbastanza vicino a lei: Zizek. Alcuni critici lo ritengono un chiacchierone, ma la sua influenza è ampia. Cosa ne pensa?

«Provo rispetto per lui. Appartiene al mondo accademico, ma è riuscito a trovare un linguaggio capace di parlare a tutti, ha attirato un folto pubblico con soggetti tradizionalmente adatti a poche menti filosofiche. Un raro fenomeno. E poi, ha scritto una quantità elevata di libri rilevanti».

Può dirci qualcosa su un altro scrittore, Miroslav Krleza, che lei cita nel libro, ma che non è granché conosciuto fuori dalla Croazia?

«È il più grande. I croati dovrebbero essere orgogliosi di lui, ma non lo sono. Le piccole persone odiano la grandezza, sono servili, ed è per questo che vanno orgogliose solo della loro feccia: dei loro generali, dei criminali di guerra, di ladri e pornostar e boss di ogni genere».

Lei ha lasciato la Croazia nel 1993.

«Insieme al mio lavoro all'Università. Appartengo al precariato, ora. Vivo come scrittrice free lance, mi mantengo con i miei libri: questo significa che sto nella classe sociale più bassa. Credo che lei lo sappia, non tutti, tra noi scrittori, sono capaci di assemblare romanzi nello stile di Cinquanta sfumature di grigio».

Una fondazione la invitò a scrivere un lungo saggio. E poi?

«Io feci una proposta operativa. Accettarono di buon grado. Mi diedero un anticipo. Quando lo consegnai, non piacque. Era Cultura karaoke».

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