"Mai mettere la parola realtà tra virgolette"

Intervista al fisico teorico Carlo Rovelli in occasione del convegno "Osservatore/osservato" all'USI
Tommy Cappellini
Tommy Cappellini
08.11.2014 05:05

Sabato prossimo, 15 novembre, sapremo – dopo non pochi patemi, è vero, e sicuramente in ritardo – se la realtà esiste oppure no. Questo, infatti, è il tema sottotraccia del convegno organizzato all'USI da «Fare arte nel nostro tempo». I relatori, provenienti da diversi settori (filosofia, scienza, arte), si sfideranno sul «rapporto osservatore/osservato» e tenteranno di rispondere a una domanda leggermente inquietante: «L'osservatore fa parte del sistema che osserva o è esterno ad esso?».

Che è come dire: si può raggiungere una conoscenza passabilmente vera del mondo? Per gli addetti ai lavori, semplificando un po': che ne è del gatto di Schrödinger? Per i giornalisti: quanta involontaria opinione c'è nella penna di chi racconta i fatti? E perché no (questa piacerà ai lettori di T.S. Eliot e Sartre): quanta realtà possiamo sopportare ogni giorno? Questioni irte, capaci di surriscaldare i cuori e le menti. Ne abbiamo parlato con il fisico teorico e scrittore Carlo Rovelli, che insegna all'Università di Pittsburgh e sarà presente alla tavola rotonda.

Professore, con quanto margine di certezza possiamo indagare questa benedetta realtà? Francis Bacon, padre della scienza moderna, diceva che «la verità è un gioco d'azzardo, una giostra». Che gli replichiamo?

«A me sembra che molte parti della scienza attuale ci indichino che il mondo sia meglio comprensibile in termini di 'relazioni' piuttosto che 'cose'. Una relazione riguarda sempre due parti e vive a cavallo fra di esse. L'elenco delle 'cose', ammesso che sia possibile, non ci dice nulla del mondo».

Come ammonivano i reporter di una volta: «i fatti non parlano da soli». Vale anche nella scienza?

«È il modo in cui le cose sono in relazione che costruisce il mondo che vediamo. Per esempio, il ferro non è un insieme di protoni e neutroni. È un particolare modo di essere in relazione l'uno con l'altro di elettroni e di protoni. Gli animali sono particolari modi di essere in relazione l'uno con l'altro di processi chimici e fisici. La nostra società non è una lista di persone: è il modo in cui queste entrano in relazione l'una con l'altra».

Ma chi guarda tutto ciò con occhio filosofico e professionale non può assumere una posizione del tutto esterna che favorirebbe, forse, una migliore comprensione del mondo?

«Direi che la conoscenza è sempre un incontro fra un osservatore e qualcosa di osservato. Non esiste osservazione senza osservatore, e dimenticarsi di questo porta ad ingenuità. Attenzione, non significa che non esistano osservazioni oggettive e non possa esserci una conoscenza affidabile. Affermo solo che non possiamo mai prescindere dal tener conto che l'osservatore è essenziale».

«Realtà» è parola da mettere tra virgolette, diceva Nabokov. Un consiglio avveduto?

«A me sembra che la parola realtà la stiamo mettendo troppo fra virgolette. La nozione di realtà ci è utilissima per avere a che fare con il mondo, e se la mettiamo troppo fra virgolette rischiamo di pensare che tutte le descrizioni della realtà siano egualmente corrette, che curarsi con gli antibiotici o con le stregonerie o con le medicine alternative sia egualmente efficace. E che non si possa mai stabilire chi ha ragione e chi ha torto».

Querelle attualissima, all'interno della quale si fanno business vertiginosi.

«Sciocchezze molto di moda. Chiarito questo, non dobbiamo dimenticare che quella che chiamiamo realtà è un complicato prodotto delle interazioni fra il mondo esterno e il nostro specifico modo di essere. Altro esempio: noi vediamo la realtà in una bella gamma di colori. Ma tale gamma di colori non è determinata dalle cose esterne, bensì dai particolari recettori del nostro occhio».

C'è chi, partendo da questa sua posizione, accusa la ricerca scientifica di essere disumanizzante. Il dolce mondo «umano», medievale, divino, sentimentale e violento, ma caloroso, perde la sua «bellezza» assoluta, indiscutibile, tipica di un dono.

«Non c'è proprio nulla di disumanizzante nella ricerca scientifica! Io trovo disumanizzante il ridurre l'uomo ad un nulla davanti a un dio; trovo disumanizzante dichiarare, come fa la Bibbia, che gli omosessuali debbano essere messi a morte; trovo disumanizzante il pensiero nazista, tutto basato sull'irrazionalismo e lodato da filosofi che poi chiamano disumanizzante la scienza... Cosa c'è di disumanizzante nel cercare rimedi contro le malattie, nel cercare di capire come è fatto il mondo, quante sono le galassie, nel lasciare libera una delle più umane fra le nostre caratteristiche, la curiosità, la voglia di capire, il desiderio di guardare lontano... Uno dei centri della ricerca scientifica attuale, e uno dei suoi punti più interessanti, è capire come funziona il nostro cervello, cosa sia la nostra coscienza di noi stessi. Cercare di capire è umano».

Diciamo, semplicemente, che alcuni vorrebbero lasciare le cose come stanno. O stavano.

«Certo, anche non voler capire, non fidarsi della ragione, affidarsi agli istinti, è umano, ma è una parte di umanità che a me piace meno».

Pure la scienza, tuttavia, non è così «rigorosa» come vorrebbe essere. Ogni anno 1,5 milioni di articoli scientifici vengono pubblicati su 16 mila riviste. Dal 25% al 45% non viene più ripreso e citato, cioè «muore». La media di citazioni raccolte da un articolo, l'«impact factor» con cui si conteggia il successo di uno scienziato, è avulso dal numero di lettori. Esiste una soglia nella competizione, e nell'accaparramento dei finanziamenti, oltre la quale la ricerca crea più effetti nefasti che positivi?

«Una gran quantità di lavori scientifici pubblicati non lascia traccia. Alcuni, invece, sì. Fra questi ci sono quelli che ci hanno permesso di guarire dalla polmonite, di inventare radio, televisione e computer, di costruire tutto il mondo moderno e lo stile di vita in cui viviamo. Se ci fosse una scorciatoia che permettesse di finanziare solo la ricerca che sappiamo avrà successo, la prenderemmo. Ma non c'è. Quando si semina il grano, moltissimi semi non germogliano. Ma se sulla base di questa considerazione smettiamo di seminare, moriamo di fame».

Forse conosce il romanzo Solar di Ian McEwan. In un'intervista il romanziere inglese dice: «La scienza è anche comica, come la vita che si fa quando ci si diverte. L'idea del libro mi è venuta durante un convegno a Postdam, Berlino, in cui incontrai in una volta sola decine di Nobel scientifici, che erano lì, tutto sommato, per divertirsi. Quasi tutti uomini, quasi tutti vecchi, rimasi colpito dalla luce che emanava il loro ego smodato. Eppure alcuni il Nobel lo avevano vinto decenni prima. Osservai a lungo queste persone che vivono all'ombra di se stesse e gestiscono da burocrati una gran quantità di soldi pubblici, facendo finta di parlare di surriscaldamento globale». Può raccontarci, se ne ha conosciuti, i lati frivoli dei suoi colleghi?

«Essere pieni di se stessi, è vero, è un difetto comune a molti scienziati di qualche successo. Quelli che non ne hanno, invece, spesso soffrono per una sensazione di mancato riconoscimento. È un po' come per gli attori...  Ma conosco scienziati di grandissimo valore che sono persone splendide. Penso a Roger Penrose, forse il più grande relativista vivente, che si comporta come un ragazzino gentile e pieno di cortesia, o George Ellis, sempre discreto e umilissimo, eppure fra le migliori menti. Sono questi i miei eroi, non i tromboni. Le persone di maggior valore scientifico sono sovente anche quelle meno pretenziose. McEwan deve aver incontrato un gruppo di tromboni, ce ne sono moltissimi nelle università, ma probabilmente non fra gli scienziati migliori».

«I periodi di vacanza sono quelli dove si studia meglio – lei scrive in Sette brevi lezioni di fisica (appena pubblicato da Adelphi, anche in ebook) – perché non si è distratti dalla scuola». Dobbiamo dedicarci di più all'ozio intellettuale? Che dire ai nostri ragazzi?

«Suggerisco loro di studiare molto ma di non fidarsi della scuola e di quello che dicono gli insegnanti. Di seguire la propria curiosità. Di cercare di non farsi opprimere dalla scuola che qualche volta stimola ma più spesso soffoca. Imparare è bellissimo: una delle cose più belle che ci siano. Direi ai ragazzi: guardate che, nonostante la scuola, le cose di cui si parla a scuola sono splendide».

Il suo Che cos'è la scienza (Mondadori) parte da Anassimandro, primo a concepire la conoscenza come atto di ribellione. Trova che oggi ci sia troppa o troppa poca ribellione? Viviamo un periodo di conservatorismo senza vere scoperte «copernicane» dagli effetti liberatori oppure questa è soltanto una percezione sbagliata?

«No, è giusta. Siamo in un periodo di conservatorismo politico, nel mondo intero, e di conservatorismo scientifico. Ma Marx diceva che la ribellione è come una vecchia talpa. Sembra che non ci sia più, sparita sotto terra, ma da là sotto scava. E quando meno te lo aspetti ricompare».

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