L'intervista

Dal Ticino all'America, il Lego «nostrano» colpisce ancora

Gli Smilebots, la squadra di robotica di ated4kids, l'11 maggio partiranno per Long Island sede della fase finale della First Lego League – Ne parliamo con la presidente e direttrice di ated, Cristina Giotto
© ated4kids
Marcello Pelizzari
06.05.2023 10:02

Non c’è il due senza il tre. Il prossimo 11 maggio, gli Smilebots di ated4kids partiranno alla volta degli Stati Uniti per partecipare alle finali internazionali della First Lego League, la più famosa competizione di robotica a livello mondiale. Una piacevole abitudine, per dirla con Cristina Giotto, presidente e direttrice di ated – Associazione ticinese indipendente aperta a tutte le persone, aziende, organizzazioni e scuole interessate alle tecnologie dell’informazione e comunicazione – nonché l’ideatrice del progetto ated4kids dieci anni fa. Già, perché gli Smilebots erano già stati ai Mondiali di Detroit del 2019 e, nel 2022, a quelli di Houston, dove i giovani ticinesi si distinsero con un diciottesimo posto su un totale di oltre 40 mila squadre.

Per capirne di più, beh, ci siamo rivolti proprio a Cristina Giotto. Che, pur senza sbilanciarsi in termini di risultati, ha voluto lanciare un grande in bocca al lupo ai suoi pupilli: Federico, Gaia, Leonardo, Elisa, Colapicchio e Ruggero, oltre ovviamente a «coach» Corrado Corsale.

Allora, presidente, parlavamo di piacevole abitudine…
«Per i ragazzi, certamente. Per noi, forse, un po’ meno visto che siamo alla ricerca di fondi per poterli mandare in America. Battute a parte, sì, per noi di ated questo Mondiale è fonte di grande, grandissimo orgoglio. Non tanto per l’evento in sé, ma perché gli Smilebots andranno negli Stati Uniti dopo nove mesi di duro lavoro. Duro e costante, con tante rinunce visto che i ragazzi si sono messi a disposizione nel tempo libero: dopo la scuola e la domenica mattina. Questa esperienza, poi, permette di allenare le cosiddette competenze soft. Le abilità personali. Ricordiamoci che questi ragazzi saranno i futuri professionisti, e futuri cittadini, del nostro cantone».

Detto che il risultato è l’ultima cosa da considerare, gli Smilebots arriveranno in America con una certa esperienza alle spalle. E con un buon nome da difendere Vero?
«Sì, anche se l’anno scorso va detto che fummo ripescati dopo aver toppato l’ingresso. Gli organizzatori, ad ogni modo, bussarono alla nostra porta dicendo che non potevamo mancare. E, alla fine, arrivammo diciottesimi su 40 mila squadre. C’è un altro aspetto interessante da sottolineare: la lingua. I nostri ragazzi andranno, ancora una volta, in America. Descriveranno il loro progetto in inglese, mentre in Europa hanno usato il tedesco».

Come funziona la gara di per sé?
«C’è una parte di programma fisso, in cui bisogna svolgere dei compiti diciamo, e un’altra in cui bisogna presentare il proprio progetto. Ogni anno, la First Lego League identifica un tema che rispecchia un po’ i bisogni del mondo. Quest’anno, quel tema era l’energia. L’anno scorso, invece, era la mobilità. I compiti, le sfide, sono un mix di Lego e robotica. Banalmente, bisogna costruire un robot capace di svolgere le mansioni richieste dagli organizzatori. Poi, appunto, c’è il proprio progetto. Quest’anno gli Smilebots hanno sviluppato delle colonnine che si alimentano a energia solare e offrono determinati servizi. Si tratta di un progetto talmente ben fatto che è già diventato una start-up. Il che la dice lunga sul valore della squadra».

Io credo che l’uomo rimarrà comunque e sempre al centro. E questi progetti, in fondo, confermano quanto dico. C’è la robotica, d’accordo, ma ci sono anche molte altre componenti. Fra cui, appunto, l’intelligenza umana

In passato, la scienza era spesso considerata una passione di nicchia, molto da nerd. Oggi, sta diventando pop grazie (anche) a iniziative come la First Lego League. Concorda?
«Concordo. Va fatta una premessa: oggi è in atto una trasformazione, un cambio di paradigma, con l’intelligenza artificiale che, in questi mesi, è entrata id prepotenza nelle nostre vite. Un momento così può anche incutere timore e creare qualche perplessità, ma secondo me si tratta di un’opportunità per rivedere la nostra posizione. Io credo che l’uomo rimarrà comunque e sempre al centro. E questi progetti, in fondo, confermano quanto dico. C’è la robotica, d’accordo, ma ci sono anche molte altre componenti. Fra cui, appunto, l’intelligenza umana. Con gli Smilebots i ragazzi imparano a essere più aperti, a usare la tecnologia senza tuttavia focalizzarsi troppo su di essa, a capire che può essere un aiuto e non un vero e proprio sostituto».

Ated creò una sezione per i ragazzi, ated4kids, già dieci anni fa. Significa che siete dei precursori?
«Significa che siamo attenti. La nostra Associazione è fatta di persone. E di relazioni. Ho avuto la fortuna di trovare la gente giusta lungo il cammino, e quella di capire l’importanza di alcune cose. Venendo ad ated4kids e alla First Lego League, ricordo che cominciammo con due format fino ad arrivare a una vera e propria sezione per ragazzi con tutta una serie di opportunità. Non smetterò mai di ringraziare, in questo senso, i tanti professionisti e volontari che si mettono a disposizione. A livello di mentoring, parliamo di persone che all’anno passano 500-600 ore assieme ai ragazzi. Persone competenti, anche in termini di passione da trasmettere».

A proposito, come detto il risultato non conta ma poi, in un contesto del genere, tutti vogliono vincere o ben figurare. Il compito di «coach» Corrado Corsale, dunque, sarà quello di far trovare l’equilibrio giusto alla squadra?
«In realtà, penso che senta anche lui la competizione. La squadra è forte, nel senso che ha diverse qualità. E poi, per quanto io sia contro le quote rosa, quest’anno ci sono pure due ragazze. E questa cosa secondo me contribuisce a fare degli Smilebots una grande formazione. Gaia ed Elisa sono le nostre due supereroine proprio perché danno equilibrio. Quanto al risultato, per noi hanno già vinto. Il solo fatto di riuscire a far vivere a questo gruppo un’esperienza così è, ribadisco, motivo di grande orgoglio. Quando vado a bussare alla porta per cercare i fondi necessari, molti mi dicono: ma non mandateli. E invece, noi li mandiamo. Perché questi ragazzi meritano una cosa del genere. E meritano di vivere un’avventura dall’altra parte del mondo senza la cosiddetta ansia da prestazione».

Ated è un’Associazione no profit che vive autofinanziandosi, tant’è che è pure stata avviata una raccolta fondi. Ma beneficiate anche di aiuti istituzionali?
«Purtroppo, le istituzioni al momento stanno vivendo in un regime di risparmio. Abbiamo sottoposto il nostro preventivo per gli Stati Uniti a Infogiovani: se non dovessimo riuscire a raccogliere tutti i fondi necessari per coprire la trasferta, loro finanzieranno le perdite fino a 5 mila franchi. Comprendo, in ogni caso, che viviamo una situazione delicata. Molte aziende sono in difficoltà, noi abbiamo diverse idee in testa ma non sempre è possibile metterle in pratica. Idealmente, con più soci e più sponsor potremmo offrire sempre più percorsi per i ragazzi».

Siamo arrivati alla fine, davvero non vuole azzardare un pronostico?
«Chiuderemo fra i primi venti. No, non so. Per me saremo fantastici a prescindere. I ragazzi si porteranno dentro questa esperienza per tutta la vita. Ricordando, anche, che alle spalle ci sono nove mesi di duro lavoro, di sveglie la domenica mattina presto. Tanta roba, come direbbero loro».