A Kabul aspettando un miracolo: «Se non mi salvi muoio»

Questa intervista a Jane Lepori, a capo dell’Associazione Zenzero e fondatrice della stessa, è stata realizzata soltanto poche ore prima del sanguinoso duplice attacco terroristico all’aeroporto di Kabul per mano dell’Isis. La sua Associazione si è mossa attivamente per permette l’evacuazione di più persone possibili in fuga dall’Afghanistan e, nel momento in cui le parliamo, già 50 civili sono riusciti ad essere messi in salvo in Italia mentre altri quaranta sono ancora in attesa. «I ponti aerei sono quasi chiusi» racconta la nostra interlocutrice. «L’Italia, cui ci appoggiavamo, ha rimpatriato i suoi soldati. Noi però siamo sempre in contatto e, se tutto quadra, vi sarà un’evacuazione via terra».
In contatto con lei fin dalla sera prima, la signora Lepori ci aveva parlato dei suoi timori per la sicurezza delle operazioni in corso in quei momenti a Kabul: si stava lavorando per portare a buon fine le evacuazioni presso l’aeroporto il più presto possibile, ma c’erano interruzioni a causa di una possibile minaccia terroristica imminente. Un attacco che alla fine purtroppo c’è stato poco tempo dopo l’allerta lanciata, giovedì 26 agosto. Violentissimo, cruento e sconvolgente con numerose vittime segnalate anche tra i civili.
«Sono in un bunker, sono stato picchiato»
La crisi umanitaria in Afghanistan è senza precedenti. Ci arrivano testimonianze di una situazione gravissima per i civili, soprattutto per anziani, donne e bambini. L’atmosfera che si respira è di fortissima tensione, attesa sfiancante e angoscia, come ci riporta Jane Lepori, in contatto costante e in tempo reale con lo svolgimento delle operazioni a Kabul. Le chiediamo quindi un quadro generale sui loro interventi di evacuazione che sono principalmente improntati sulla protezione delle fasce più esposte ai pericoli. «Nei nostri progetti con l’Associazione cerchiamo di mettere l’accento sulle donne». E già prima della recrudescenza talebana in Afghanistan, ci spiega Lepori, i suoi volontari avevano avuto occasione per aiutare delle donne afghane nell’ambito dell’istruzione, naturalmente nella massima riservatezza. Ma è nelle ultime settimane, quando la situazione è precipitata, che il lavoro dell’Associazione è entrato nel vivo, arrivando a fare la differenza tra la vita e la morte per decine di civili indifesi. «Quando abbiamo iniziato a vedere questo movimento abbiamo capito che sarebbe stata la fine. All’inizio si pensava che i talebani volessero prendere solo qualche regione, invece poi si sono capite le reali intenzioni. L’avanzata è stata molto rapida, nessuno se l’aspettava. E nemmeno un ritiro così veloce da parte degli americani. Noi abbiamo iniziato a muoverci prima che i talebani arrivassero a Kabul. Abbiamo la fortuna, come Associazione, di essere nel circuito dei corrispondenti diplomatici, quindi abbiamo diverse entrature a livello politico, italiano soprattutto». Il lavoro svolto dall’Associazione è stato realizzato, infatti, tramite dei ponti che erano sostenuti dalle autorità: i loro volontari non si trovavano più in loco, ma hanno lavorato tutti dall’Italia e dalla Svizzera e hanno creato poi dei ponti via Roma e successivamente Roma-Kabul, come ci spiega la nostra interlocutrice.

L’appoggio delle autorità italiane è stato, di fatto, fondamentale per l’operato dei volontari guidati da Jane Lepori, che hanno cominciato subito a stilare liste di persone ad alto rischio da evacuare attraverso la collaborazione con i diplomatici presenti a Kabul. «Abbiamo lavorato a stretto contatto con Roma, con il Ministero degli Esteri per farci accettare le liste, perché ovviamente le persone devono essere incluse in un circuito di nominativi ufficiali dato che poi, all’arrivo in Italia, devono avere un visto di rifugiato. Altrimenti non è nemmeno possibile effettuare l’evacuazione dall’Afghanistan». Sono quindi partiti con una lista di 15 persone - prevalentemente donne bambini - tra i quali si contano anche alcuni atleti afghani che hanno partecipato alle Olimpiadi invernali o che sono venuti in passato a sciare in Svizzera. Insomma, persone conosciute dall’Associazione, anche se mai incontrate direttamente, come ci spiega Lepori. A queste persone però si sono rapidamente aggiunti i membri delle loro famiglie: «Le famiglie afghane sono molto unite: la maggior parte delle donne ci ha detto che se non avessimo salvato anche la loro famiglia, loro non si sarebbero mosse e piuttosto avrebbero rischiato la vita. Quindi da una lista stilata inizialmente di 15 persone, siamo presto arrivati a una di 50». E da quel momento lei e suoi collaboratori hanno studiato il modo evacuare queste persone, suddividendole in gruppi. Ma la situazione instabile all’aeroporto di Kabul non ha reso facili queste operazioni. Ecco come la nostra interlocutrice ci ha descritto quel clima teso e surreale: «L’aeroporto di Kabul era presidiato all’esterno dai talebani, mentre all’interno si trovavano le varie fazioni occidentali: americani, inglesi, italiani, francesi. Ognuno aveva un proprio gate. La difficoltà era accedere all’aeroporto: in alcuni momenti si è creata una folla molto grande e ci sono stati anche dei morti purtroppo, legati allo schiacciamento causato dalla folla stessa, ma anche a causa di diverse sparatorie che si sono verificate».
Nonostante tutto, fortunatamente, le evacuazioni previste ci sono state: «Il primo gruppo di otto persone è partito lunedì della settimana scorsa» continua Lepori, «il secondo invece, di 40 persone, è riuscito a partire quattro giorni dopo. Abbiamo dovuto fare le partenze scaglionate, gli aerei con i quali l’Italia faceva da ponte erano circa due al giorno. Ma nel frattempo ci hanno contattato, essendo la nostra un’Associazione riconosciuta anche a livello ministeriale, tante altre piccole famiglie afghane, dopo aver saputo che siamo riusciti a mettere in salvo i primi gruppi. Quindi abbiamo ricreato un’altra lista di persone che fondamentalmente non conosciamo perché sono amici degli amici degli amici; sono in prevalenza donne, atlete, le quali ci hanno scritto chiaramente che sono in grave pericolo». Jane Lepori prosegue nel suo resoconto, sempre più difficile: «Ho ricevuto dei messaggi strazianti: “se non mi salvi muoio”, “sono nascosta da tre giorni”, “sono in un bunker”, “sono stato picchiato”» e così via, con contenuti sempre più duri e preoccupanti. «Perché, ora, la vita di tutte le persone istruite, di tutte le persone che hanno fatto attività sportive o che hanno avuto a che fare con realtà straniere è a rischio, dato che tutte queste cose non sono contemplate nella legge talebana». Da qui l’urgenza di creare e fare approvare al più presto una nuova lista di persone da trarre in salvo. Ma al momento, ci spiega la nostra interlocutrice, le difficoltà sono tante e non si è ancora riusciti a evacuare altri civili: «La nuova lista è ufficiale, c’è tutto, è pronta». Il problema è che l’Italia ha chiuso la sua missione a Kabul.


L’Associazione Zenzero si sta impegnando per riuscire a fare ampliare questo numero e un pochino di margine è stato fortunatamente concesso. Ma la situazione resta tragica, ai limiti del sopportabile. Lepori continua a illustrarci la precarietà ai gate e, dato che ora i talebani si sono insinuati anche all’interno dell’aeroporto e diverse forze straniere hanno già lasciato l’Afghanistan, le prospettive non sono per niente buone: «È da due giorni che stiamo cercando di farli venire a prendere, si trovano proprio davanti all’ambasciata del gate italiano, ma in generale c’è troppa folla e ora ci sono anche i talebani che presidiano l’interno dell’aeroporto, oltre che l’esterno, perché hanno dichiarato che non avrebbero più permesso agli afghani di fuggire». E durante la notte che ha preceduto la nostra intervista, la situazione dell’evacuazione è rimasta drammaticamente bloccata per la minaccia imminente di attacchi kamikaze all’aeroporto: «Nella notte tra mercoledì 25 e giovedì 26 agosto hanno chiuso tutto. Proprio quando stavano per uscire i nostri hanno dovuto chiudere l’aeroporto per tre-quattro ore perché c’è stata una minaccia di attacco terroristico. Attacco poi verificatosi. Sì, c’erano tante persone che aspettavano da 35 ore di essere accolte all’interno del gate italiano. Ma ci avevano garantito che sarebbero venuti a prenderle». Anche se con il trascorrere del tempo, purtroppo, la situazione stava peggiorando inesorabilmente: «Abbiamo sperato in giornata di riuscire a metterli in salvo, era l’ultima possibilità. Perché poi anche gli italiani sarebbero andati via da là, come tutti. Draghi stava cercando di prolungare un pochino questo stato d’emergenza, ma non si sapeva come sarebbe andata a finire».
Una situazione che appare davvero cupa. Le speranze per l’Associazione Zenzero di salvare i civili afghani vengono appunto dalla collaborazione stretta con le istituzioni italiane, un aiuto assolutamente fondamentale. La Farnesina sta ovviamente facendo molto, ma saranno milioni le richieste inoltrate. E, purtroppo, rimane complicato riuscire ad agire in questo contesto. C’è la speranza, prosegue Lepori, che la Comunità Europea intervenga con la creazione di corridoi umanitari, permettendo alle varie associazioni di insediarsi in loco e di proteggere attivamente le persone più a rischio. «È un discorso molto complesso, se si riuscirà ci vorranno mesi e mesi. Nel frattempo non si sa bene che cosa succederà, la situazione è drammatica».
Chiediamo alla signora Lepori se, in questi giorni, sia stata in contatto con il Console italiano a Kabul, Tommaso Claudi, uno dei funzionari partiti per ultimi, che ha fornito attivamente aiuto alla popolazione locale. Ricordiamo l’immagine che lo ritraeva mentre salvava un bambino afghano, sollevandolo oltre il muro dell’aeroporto. «Eravamo in contatto con lui, io non direttamente, ma tramite una nostra conoscenza di Roma e infatti era lui la nostra ultima speranza, dato che le persone che volevamo evacuare erano proprio davanti all’ambasciata italiana all’interno dell’aeroporto. Avevamo parlato con il Console e lui stava facendo tutto il possibile. In generale tutti gli italiani in loco – erano rimasti non oltre una trentina e hanno gestito più di mille persone – hanno fatto veramente un gran lavoro. Il Console è una persona veramente umana, ha fatto i salti mortali. Siamo stati ad aspettare l’ultimo miracolo».

La pressione di Cassis
Per quanto riguarda i funzionari svizzeri la situazione è stata un po’ diversa, ci spiega Lepori: «La Svizzera, avendo meno affari laggiù, ha rimpatriato più rapidamente le persone a suo stretto contatto. Si è occupata meno dell’espatrio di rifugiati, però ora dal Dipartimento federale degli affari esteri c’è Cassis che sta facendo un po’ di pressione affinché si possano accettare le persone sul suolo elvetico, vedremo come andrà».
Sappiamo che in una crisi umanitaria il prezzo più alto lo pagano le donne, e anche in Afghanistan c’è il rischio fortissimo che stia già accadendo. Chiediamo a Jane Lepori, che si è sempre occupata di difendere e promuovere i diritti delle donne, come si stanno muovendo lei e la sua Associazione per far fronte a questa emergenza. Dopo l’evacuazione delle persone a rischio, che è il primo passo, l’aiuto arriva concretissimo ma viene realizzato in Italia, laddove effettivamente è fattibile: «Le donne le proteggeremo e cercheremo di integrarle in Italia, perché operare in Afghanistan sarà praticamente impossibile. Lavorare come Associazione riconosciuta non sarà permesso a breve perché il nuovo regime non lo consente. La situazione è terribile perché al momento non è previsto nessun aiuto alle donne in loco, questo è disastroso». Invece la prospettiva delle afghane in Italia è decisamente rosea, con tante associazioni che si stanno muovendo per aiutarle e accoglierle. L’Associazione Zenzero, ci racconta Jane Lepori, oltre alle 50 persone già evacuate e arrivate a Roma si sta occupando di farne arrivare altre 40-45: una novantina quindi in totale. E «tantissime sono ragazze». E ancora: «Abbiamo aiutato a trarre in salvo e a evacuare un gruppo di giovani atlete, 15 calciatrici. Il nostro gruppo le ha aiutate, ma per salvarsi le ragazze dovevano attraversare un fiume senza nessun mezzo, immergendosi completamente nell’acqua e nella corrente. Le giovani sono riuscite a passare il fiume fino all’altra sponda e ad essere messe in salvo. Saranno in arrivo in Italia». Una storia che fortunatamente si è conclusa bene e che ridà un po’ di respiro e di sollievo in questa serie di incessanti cronache di violenza e morte.
In Italia intanto, come appena accennato, si è messo in moto il meccanismo della rete umanitaria, come ci spiega Lepori, con l’azione di tutte le varie associazioni presenti su suolo italiano che si occupano di proteggere e aiutare le donne. «L’obiettivo è l’integrazione, io tengo i contatti con tutti loro, perché una volta finita la quarantena che è d’obbligo all’arrivo, insieme al tampone, le persone saranno inviate nei centri di accoglienza per rifugiati, verranno fatti dei documenti. E poi subentriamo noi. Per ora si interviene ancora in regime d’emergenza: stiamo acquistando beni primari, come i pannolini per i bambini, ma anche gli abiti e le scarpe. Il cibo viene fornito direttamente tramite il Ministero con i buoni pasto quotidiani». Una volta sistemate queste necessità, l’Associazione sta già guardando a come dare un reale futuro a queste persone: la chiave è l’integrazione. È proprio su questo che punta l’Associazione Zenzero, tramite un piano d’azione concreto e diversificato. Alla base di tutto ci sarà in ogni caso l’apprendimento dell’italiano, dato che la lingua costituisce il primo passo per integrarsi in un nuovo Paese: «Stiamo creando una rete di scuole e professori, soprattutto per i più piccoli, che si devono costruire un futuro qui. E poi si guarda al trovare degli impieghi, abbiamo già delle aziende che si sono offerte di dar loro lavoro». Si pensa a un futuro costruttivo, «l’obiettivo è evitare che restino rifugiati, devono integrarsi e crearsi una vita».


Un futuro tramite il lavoro
Creare un futuro tramite il lavoro, un’idea sulla quale Jane Lepori ha sempre fondato la sua attività. Soprattutto in Africa, cercando di dare un lavoro a più donne possibili. È dall’Etiopia, infatti, che sono partiti lei e i membri dell’Associazione Zenzero, già sette anni fa, con l’idea di costruire un futuro reale, autosufficiente e rispettoso dell’ambiente tramite dei centri di riciclaggio della plastica. Dal successo avuto in Etiopia, questi progetti si sono estesi in altri stati africani: Ghana, Uganda e Senegal da ultimo, dove attualmente Zenzero lavora a delle coltivazioni. Questo viene reso possibile, ci spiega Lepori, grazie a dei progetti di economia circolare: «Noi fondamentalmente creiamo posti di lavoro e questo combatte il fenomeno dell’emigrazione, perché se io nel mio Paese sto bene e ho un lavoro, non ho nessuna intenzione di andarmene». L’economia circolare di cui ci parla Jane Lepori presenta numerosi vantaggi, innanzitutto si autofinanzia e, inoltre, genera dei guadagni che vanno direttamente alla popolazione locale. «È proprio il nostro scopo» prosegue, «noi finanziamo il progetto all’inizio, mettiamo i soldi per i primi anni per avviare l’attività, e poi non dobbiamo pensare più a niente, creiamo un’impresa autonoma. Nel centro di riciclaggio in Etiopia sono quattro anni che non mettiamo più nulla. Al massimo, le uniche spese che abbiamo sono quelle per l’ampliamento delle strutture, ma non per il sostentamento. Sono fondi non fini a loro stessi, perciò permettono una crescita».
Un’idea che funziona benissimo dato che le imprese crescono e impiegano sempre di più: solo nel centro di riciclaggio della plastica in Etiopia lavorano ben 220 donne, mentre considerando anche le imprese presenti in Uganda e Ghana ne contiamo un centinaio in più. Jane Lepori ci racconta i dettagli: «Per il progetto plastica abbiamo impiegato più di 300 donne in tre Stati, hanno un lavoro stabile e uno stipendio regolare tutti i mesi. In Etiopia siamo attivi ormai da sette anni mentre in Senegal c’è un vero e proprio piano agricolo: abbiamo un terreno coltivato a Thiès, un paesino a un’oretta di macchina da Dakar, e cerchiamo di coinvolgere le comunità locali nel nostro progetto. Lì non abbiamo la costante mensile dello stipendio, varia perché dipende dalla stagionalità dei prodotti che coltiviamo; in questo caso le impiegate vengono pagate a giornata».
Per concludere, chiediamo Lepori come reagisce la gente di fronte alla sua Associazione, soprattutto in Ticino, dato che la prima sede si trova a Lugano. «Ho i miei contatti, amiche e collaboratori, persone che mi seguono e sicuramente trovo tanta solidarietà nei nostri progetti. Ma si incontra un po’ di diffidenza. Comprensibilmente, dato che ci sono delle realtà benefiche che purtroppo non destinano nel modo corretto i loro fondi». Una diffidenza che, comunque, Zenzero cerca di contrastare: «Cerchiamo di fare una comunicazione mirata, andare dalle aziende per farci conoscere e spiegare che cosa facciamo nel concreto. Proprio per far capire che siamo tutti volontari, nessuno di noi è stipendiato dall’Associazione, non abbiamo nessuno a busta paga. Ognuno di noi ha le proprie attività professionali da cui derivano i redditi, quindi il tempo che dedichiamo all’Associazione è veramente un tempo di volontariato. Le uniche spese che abbiamo sono quelle di logistica, molto contenute. In più abbiamo i bilanci pubblici, sempre consultabili, oltre al supporto del Comune di Lugano come Ente di pubblica utilità». E ancora, sulle donazioni ricevute «abbiamo più o meno un 20% di costi e tutto il resto viene investito direttamente nei progetti, non abbiamo costi di struttura, cosa che tante altre associazioni più grandi hanno».