Aeroporti vulnerabili ai droni, la «guerra» che fa paura all’Europa

Dopo aver lavorato molti anni al Politecnico di Zurigo, Mauro Gilli è oggi professore ordinario di Strategia e Tecnologia militare al Centro di sicurezza internazionale della Hertie School di Berlino. Con lui il Corriere del Ticino affronta la questione della presenza dei droni nello spazio aereo degli scali di Copenaghen e Oslo, un evento che ha portato lunedì alla chiusura temporanea di entrambi gli aeroporti, riaccendendo - nel contempo - la discussione sulla sicurezza dei voli civili.
«Dietro la parola drone - esordisce Gilli - ci sono tante cose, e molto diverse tra loro. È un po’ come parlare di veicolo con le ruote, concetto che va da un triciclo per bambini a una macchina di Formula Uno. I droni sono mezzi a controllo remoto in grado di svolgere più funzioni, in particolare di ricognizione o di attacco. Alcuni di essi sono, a tutti gli effetti, veri e propri missili. Sono cioè dotati di una testata esplosiva, il cui utilizzo porta alla distruzione del drone stesso. Quando noi sentiamo di un attacco di droni russi o di droni iraniani usati dalla Russia contro l’Ucraina, spesso abbiamo a che fare con missili che, negli ultimi 10 anni, per ragioni lo ammetto non del tutto chiare, molti analisti hanno iniziato a chiamare droni o One Way Attack Drones, OWA Drones, droni che hanno una sola direzione. Diversi sono i velivoli della DJL, come il Mavic, usati sia dalle forze russe sia da quelle ucraine per la ricognizione a corto raggio e a bassa quota: sono stati lanciati in modo molto esteso nella seconda fase della guerra, intorno a maggio 2022, e hanno una funzione ricognitiva. Ma poi ci sono anche mezzi che arrivano a costare 140 o 180 milioni di dollari, hanno aperture alari più grandi di un caccia e montano sensori radar, elettro-ottici e sistemi di comunicazione molto avanzati, in grado di dialogare con i satelliti e di fornire capacità militari completamente diverse, ad esempio perlustrazioni a lungo raggio e ad alta quota. Altri ancora - dice Gilli - sono quelli chiamati FPV Drones, cioè First Person View Drones, simili ai ricognitori, sui quali sono però collocate munizioni di artiglieria o esplosivi; mezzi, quindi, tutto sommato piccoli, con un raggio e un’altitudine limitati, ma usati per colpire soldati nelle trincee nemiche o mezzi in marcia».
La domanda che tutti si fanno, in questo momento, è come sia stato possibile che un intero spazio aereo non fosse più governabile, come cioè missili, droni o oggetti volanti non indentificati possano entrare liberamente nello spazio aereo di un aeroporto.
«Dalle informazioni disponibili, e dal fatto che non ci sono state esplosioni, posso pensare che si sia trattato di droni probabilmente portati in prossimità dell’aeroporto da una nave - spiega Gilli - Pensiamo all’attacco con cui, a giugno, l’Ucraina ha distrutto numerosi bombardieri russi: è stato condotto spostando i droni in prossimità di una base militare. Lo stesso ha fatto Israele, sempre a giugno, quando prima di bombardare l’Iran ha portato all’interno del confine iraniano piccoli droni poi utilizzati per neutralizzare parte delle difese antiaeree. Nel caso danese e norvegese, è possibile quindi che un vettore, probabilmente una nave, sia riuscita ad arrivare in prossimità dell’aeroporto facendo sollevare in volo i droni vicino allo spazio aereo degli scali. Se i droni procedono a quota relativamente bassa, il tempo per avvistarli è molto limitato e non è così facile neutralizzarli. Non tutti, almeno. In questo caso si può pensare che si sia trattato di un’azione volta a creare scompiglio nel traffico aereo - in inglese si direbbe disrupt - sfruttando una vulnerabilità degli aeroporti che purtroppo esiste».
Altra questione di cui si dibatte da due giorni è la provenienza di questi droni. È possibile capire con certezza chi li ha lanciati? «Una volta che si ha accesso al drone è possibile, guardandone la componentistica o la scocca, ricondurlo a un Paese o a un altro - dice Mauro Gilli - in molti casi, quindi, si può fare, ma non in tutti. Dobbiamo accettare la possibilità che chi ha lanciato il drone abbia voluto mantenere il proprio anonimato».
È la nuova guerra. Che molti pensano possa somigliare, in futuro, sempre più a un videogioco. Idea che Gilli non condivide del tutto. «Il Reaper e il Predator americani, il Bayraktar TB2 turco o il Wing Loong cinese, droni che volano ad alta quota e a lungo raggio montando missili, hanno portato tanti a immaginare che nella guerra aerea non servissero più i caccia. Certo, fino a quando combatti contro i terroristi che non hanno difese antiaeree, puoi permetterti di usare questi droni senza grandi problemi nello spazio aereo nemico; ma nel momento in cui muovi guerra contro Paesi che hanno sistemi di difesa avanzata, questi droni possono essere facilmente abbattuti e quindi combattere da una consolle è molto, molto più difficile. La guerra, purtroppo, rimane».
E in Svizzera? Che cosa potrebbe accadere? Skyguide - la società che gestisce il controllo del traffico aereo civile e militare nel nostro Paese - spiega in una nota inviata al Corriere del Ticino che pur non tenendo statistiche specifiche, i casi di intrusione negli spazi aerei sono pochi, cinque o sei all’anno. «Personalmente - dice Gilli - non conosco nello specifico le tecnologie in possesso della Svizzera, ma direi che per quanto riguarda la minaccia militare, le tecnologie difensive esistono e sono disponibili. Il problema, come il caso ucraino dimostra, si pone quando l’attacco è continuato e continuativo, per cui diventa insostenibile neutralizzare tutti i missili o droni in arrivo, perché le munizioni dei sistemi di difesa si esauriscono velocemente. Per quanto riguarda, invece, i problemi per gli aeroporti creati da droni di piccole dimensioni, esistono anche in questo caso rimedi, ma è difficile garantire un’efficacia del 100%, e dunque dobbiamo accettare la possibilità di inconvenienze per i passeggeri».