Afghanistan, donne e bambini vittime designate

Cacciate prima dalle aule delle superiori, poi da quelle universitarie. E ora, escluse dalla possibilità di lavorare per le Organizzazioni non governative (ONG) nazionali e internazionali. Da Kandahar a Herat, a Kabul, per le donne afghane è di nuovo notte.
Meno di un anno e mezzo fa, il 15 agosto 2021, dopo la precipitosa fuga dei militari USA e NATO dal Paese occupato per due decenni, i talebani erano tornati al potere mostrando un volto apparentemente più aperto e conciliante. Ma la loro era soltanto una maschera, rimossa la quale ogni cosa è di nuovo precipitata di decenni indietro nel tempo. I segnali, in tal senso, erano stati numerosi. E chiari: l’accesso a parchi, palestre e agli hammam della capitale (i complessi termali in cui i musulmani effettuano il lavacro obbligatorio prima della preghiera rituale, ndr) permesso soltanto agli uomini; le scuole chiuse alle bambine in molte province; il ministero degli «Affari femminili» rinominato ministero della «Promozione della virtù e della prevenzione del vizio». E ancora, l’Istituto nazionale di musica trasformato in una base militare talebana. E l’ambasciata britannica convertita in una madrasa, una scuola di teologia islamica ovviamente soltanto per giovani maschi.
Repressione feroce
Gli spazi pubblici negati e il divieto di istruzione sono il fronte più visibile della feroce repressione talebana, il cui principale obiettivo era e rimane identico: le donne. Sempre più rinchiuse in un orizzonte fisico e culturale di intollerabile sopruso e di controllo.
Anche l’ultima decisione - comunicata il 24 dicembre scorso dal governo degli studenti islamici - di proibire alle afghane la collaborazione con le ONG, è stata probabilmente presa per recidere ogni residuo legame con l’Occidente e con quei gruppi che offrono spesso la sola opportunità di prendere coscienza dei propri diritti. Ma le ONG sono, al momento, anche vitali per il Paese: l’unico vero riparo da fame e malattie.
«Al di là dell’evidente arretramento dei diritti fondamentali - ha subito commentato l’UNICEF in una nota - queste decisioni avranno conseguenze di vasta portata sulla fornitura di servizi essenziali per i bambini e le famiglie in tutto il Paese, in particolare nei settori della salute, della nutrizione, dell’istruzione e della protezione dell’infanzia, ambiti in cui le operatrici umanitarie hanno un ruolo incommensurabilmente importante da svolgere. Ciò include la programmazione UNICEF, attraverso la quale forniamo servizi a 19 milioni di persone, tra cui più di 10 milioni di bambini, in tutto il Paese. Vietando il lavoro alle donne nelle ONG, le autorità talebane di fatto negano questi servizi a una parte significativa della popolazione e mettono a rischio la vita e il benessere di tutti gli afghani, in particolare di donne e bambini».
Nella lista dei 20 Paesi a maggiore rischio per il 2023 stilata dalla Croce Rossa Internazionale, l’Afghanistan è al terzo posto, «in pieno collasso economico, a causa dell’insicurezza alimentare, dei problemi climatici e del trattamento discriminatorio delle donne, che incide a tutti i livelli». Secondo il rapporto ONU Global Humanitarian Overview (GHO), presentato a Ginevra il 1. dicembre scorso, invece, in Afghanistan almeno 14 milioni di bambini hanno bisogno di aiuto: «L’Afghanistan è da tempo uno dei posti peggiori in cui vivere per i bambini - si legge nel rapporto - ma nell’ultimo anno la situazione per loro è diventata ancora più disperata. I bambini vanno a letto affamati. Milioni sono a rischio di malnutrizione acuta e di altre malattie potenzialmente letali. Le famiglie stanno adottando misure estreme per sopravvivere, come mandare i figli a lavorare o provando a sostentarsi soltanto con il pane. È una catastrofe umanitaria di dimensioni mai viste prima, ed è destinata purtroppo a peggiorare».
I bambini, ha detto Christopher Nyamandi, direttore in Afghanistan di Save the Children, «soffrono anche a causa dell’incuria politica e della mancanza di fondi per la risposta umanitaria, nonostante il Paese sia in cima alla lista delle emergenze che hanno causato il più grave impatto sulla popolazione» infantile.
La testimonianza
«Oggi l’Afghanistan è un mondo dove le luci sono spente, un mondo nel quale sono calati il buio e il silenzio e non ci sono più colori e sorrisi. La gente vive nella povertà più assoluta e i talebani al governo hanno tradito il popolo, violandone i diritti sistematicamente. Parlare di quanto sta accadendo nel Paese è importante, tutti devono sapere». Da poco più di un anno, Jamileh Amini è la presidente dell’Associazione comunità afghana in Ticino (ACAT). Mediatrice culturale, traduttrice, Jamileh - che vive nel nostro cantone dal 2011 - lavora a stretto contatto con centinaia di profughi giunti nella Svizzera italiana dal Paese asiatico. «Gli afghani in Ticino sono circa 700 - racconta Jamileh Amini al CdT - molti di loro sono minori non accompagnati, e fa impressione ascoltare le storie dei bambini di 10 o 11 anni i quali, per salvarsi, per avere un futuro, hanno affrontato da soli un lunghissimo viaggio. È sempre qualcosa di inimmaginabile, di sconvolgente».
Scegliere di rimanere a vivere in Afghanistan è «difficile, quasi impossibile - dice ancora Amini - chi può fugge, consapevole che l’unica alternativa è la povertà, è la miseria. Purtroppo, così il Paese si svuota; in particolare, scappano i più istruiti, i più consapevoli, coloro i quali potrebbero aiutare l’Afghanistan a cambiare le cose».
Tra chi resta c’è chi tenta di protestare, «ma rischia la vita - dice la presidente dell’ACAT - È vero, molte donne sono scese in strada, ma non hanno avuto appoggio, nessuno dà loro una mano. Gli uomini hanno paura della reazione violenta dei talebani». Mentre il mondo ricco sembra mostrare indifferenza. «È terribile come l’Occidente abbia girato le spalle all’Afghanistan - conclude Jamileh Amini - ma a noi serve che non abbandoni il Paese al suo destino, che riprenda il dialogo».

«Gli aiuti internazionali non bastano più»
«Non si può escludere metà della popolazione dalla scuola e dall’università. In questo modo si uccide un intero sistema». Simona Lanzoni è la vicepresidente di Pangea Onlus, una organizzazione non governativa (ONG) che da molti anni sostiene attivamente le donne afghane. Dopo il ritorno al potere dei talebani, nell’agosto dello scorso anno, Pangea ha contribuito a mettere in salvo migliaia di donne, continuando a lavorare nel Paese asiatico nonostante enormi difficoltà.
«A Kabul e in tutto l’Afghanistan - dice Lanzoni al Corriere del Ticino - enclave di enorme ricchezza sono circondate da un mondo in cui la gente muore letteralmente di fame. Gli aiuti internazionali non riescono a coprire tutti i bisogni, ma i talebani persistono nella loro politica. D’altronde, se i rivoluzionari hanno l’obiettivo di cambiare il sistema, non fanno caso se lo stesso collassa. Per noi è assurdo, ma il senso, il peso e il valore che diamo alla vita sono diversi da quelli degli studenti islamici».
In Afghanistan, ogni giorno di più, «donne e bambini sono escluse dalla società - dice ancora Lanzoni - ma le ultime decisioni dei talebani danneggiano l’intero Paese. Le donne facilitano i processi sociali, escluderle dall’istruzione, dal sistema sanitario, da ogni altro luogo che non sia quello domestico riporta le lancette della storia indietro di decenni, a una società patriarcale insostenibile. Sono decisioni fuori dal tempo».
La gente, sottolinea Simona Lanzoni, «è stremata; i segnali di ribellione sono evidenti, qualcuno rischiando la vita prende posizione ma di fronte hanno persone con un kalashnikov in mano. Dall’Iran arriva l’eco delle proteste di piazza, ma la differenza sostanziale è che a Teheran gli uomini sono a fianco delle donne, in Afghanistan no». Che fare, allora? «L’unica possibilità è continuare a negoziare, magari coinvolgendo e sostenendo le varie diaspore afghane nel mondo - conclude la vicepresidente di Pangea - Certamente, non si può lasciar morire una popolazione per un’ideologia».