Alla ricerca della vita extraterrestre

C’è vita al di fuori della Terra? Negli ultimi decenni la comunità scientifica è sempre più attratta dalla possibilità di ottenere una risposta. Così è nato un intero settore di ricerca: l’astrobiologia, la scienza che si occupa di individuare tracce di vita al di fuori del nostro pianeta. Il primo passo per capire questo mondo è mettere a fuoco tre questioni fondamentali: cosa si cerca, con quali mezzi e dove potrebbe essere. A prima vista può sembrare semplice distinguere cosa provenga da esseri viventi e cosa no, in realtà è un problema affatto banale. Non parliamo, infatti, di esseri animati come l’E.T. di Spielberg, né di civiltà evolute da film di fantascienza, ma nella migliore delle ipotesi si spera di trovare microrganismi come batteri e cellule o semplici molecole di origine biologica.
Questione di clima
Affinché la vita possa svilupparsi occorre innanzitutto che ci siano le giuste condizioni climatiche. In un pianeta troppo vicino al Sole, come Mercurio, la temperatura è troppo alta, in quelli troppo lontani, ad esempio Saturno, è troppo bassa. Nel nostro sistema solare solo la Terra e Marte sono nella giusta distanza. Allo stesso tempo occorre che siano disponibili gli ingredienti chimici per formare le biomolecole, primo di tutti l’acqua liquida. Su Marte ci sono forti indicazioni geologiche della presenza di grandi quantità di acqua: fiumi e oceani che poi sono evaporati. I dati della missione Curiosity, avviata nel 2012, confermano che il pianeta è potenzialmente abitabile. Indizi sufficienti per sperare di trovare fossili di batteri, come avviene in certe zone della Terra ora deserte dalle quali i laghi si sono ritirati.
Negli ultimi anni le principali agenzie spaziali, l’americana NASA, l’europea ESA e la russa Roscosmos, hanno deciso di investire ingenti risorse nel l’astrobiologia. Sono state progettate missioni spaziali a destinazione Marte che prenderanno il largo nel 2020, quando Europa e Russia apriranno la pista con la missione ExoMars, seguita a ruota da Mars2020 della NASA.
In entrambi i casi verrà fatto atterrare sul suolo marziano un rover, ovvero un robot motorizzato poco più piccolo di un’automobile che contiene al suo interno un laboratorio automatizzato. In loco il mezzo dovrà muoversi sulla superficie analizzando la geologia del territorio. Individuato il punto adatto, un trapano perforerà la superficie ed estrarrà un campione di terreno trasportandolo all’interno del robot. Qui, attraverso sofisticate apparecchiature, verranno eseguite le analisi chimiche e fisiche per determinare la composizione molecolare del campione. Nel caso della missione russo-europea, ExoMars, anche la Svizzera ha fatto la sua parte sviluppando Clupi, una speciale telecamera che controlla e sorveglia il carotaggio.
Nonostante la grande distanza dal Sole e le temperature bassissime, anche Europa e Titano, lune rispettivamente di Giove e Saturno, attirano l’attenzione degli astrobiologi. Gli scienziati ritengono che in entrambi i casi sotto uno spesso strato di ghiaccio superficiale ci siano grandi riserve di acqua liquida. Le condizioni estreme, la scarsità di informazioni e le grandi distanze, però, ci obbligano a pazientare qualche lustro prima di una missione. Dagli studi fatti finora, inoltre, sembra che i meteoriti e le comete possano ospitare piccole molecole necessarie alla formazione di strutture biologiche più complesse, offrendosi come potenziali vettori interplanetari.
I modelli teorici
Astrobiologia significa anche cercare di capire a priori quali tipi di vita potrebbero formarsi. Prima delle spedizioni c’è molto lavoro da svolgere sulla Terra. I dati disponibili dalle missioni spaziali precedenti, su geologia e composizione chimica dei corpi celesti, sono utilizzati per costruire modelli teorici di quello che ci si potrebbe aspettare. Ad esempio su Titano gli oceani sono ricchi di ammoniaca, le temperature molto basse e la pressione poco più alta della nostra. Nei laboratori di ricerca si replicano queste condizioni e si osserva quali microrganismi sono in grado di sopravvivere e di quali elementi hanno bisogno per nutrirsi. Da qui si parte per capire come la vita possa essersi adattata a queste condizioni e quali biomolecole possano essersi formate.
La domanda atavica cui gli astrobiologi cercano di rispondere porta con sé molte questioni scientifiche altrimenti irrisolvibili . A priori non sappiamo se sui pianeti e satelliti del nostro sistema solare l’ipotetica vita sia ai primissimi stadi evolutivi o estinta da milioni di anni, né se abbia caratteristiche comuni a quanto ci circonda. Accanto ad una plausibile rivoluzione della nostra comprensione dei meccanismi biologici fondamentali, dunque, l’osservazione di tracce organiche illuminerebbe il percorso temporale della vita su scale vastissime, aiutandoci a capirne l’origine, lo sviluppo e le prospettive future.

Florian Kehl: «Lavoriamo su un dispositivo miniaturizzato»
Florian Kehl (nella foto sopra) è uno scienziato svizzero che sviluppa tecnologie per le missioni di astrobiologia al Jet Propulsion Laboratory (JPL) della NASA. «Astrobiologia, ci spiega, «è un termine molto ampio. Si va da chi studia la vita in ambienti estremi sulla Terra, come caverne, strati alti dell’atmosfera, deserti o abissi, a chi usa telescopi per captare tracce di molecole biologiche nello spazio passando per chi, come me, si occupa di sviluppare tecnologie per le spedizioni su altri corpi celesti».
Il gruppo in cui lavora KehlNoi sta sviluppando «un dispositivo miniaturizzato per una tecnica in grado di rilevare minuscole quantità di molecole chiamata elettroforesi capillare. Il campione da analizzare viene trattato chimicamente e immesso in un tubicino molto stretto, alle cui estremità sono applicati alti voltaggi. Al suo interno ogni tipo di molecola viaggia a velocità differente in base alla propria carica e dimensione e le diverse specie chimiche possono facilmente essere separate e distinte. In questo modo possiamo rilevare le più piccole tracce di molecole biologiche».
Una grande selezione
Un dispositivo che però non farà parte della missione Mars2020 «e non è nemmeno scontato che verrà utilizzato nelle missioni successive. La NASA lavora in modo competitivo e ci sono molti gruppi di ricerca al lavoro per sviluppare diversi metodi che assolvano la medesima funzione».
Nel frattempo le tecnologie venogno testate in laboratorio. «Le testiamo nelle condizioni più estreme del pianeta, come il deserto cileno e i ghiacci dell’Alaska. Se questa fase procede bene allora si inaspriscono le condizioni in laboratorio, utilizzando macchinari per simulare le vibrazioni del decollo, creare il vuoto, abbassare drasticamente la temperatura e generare le fortissime radiazioni, perché questo è lo scenario in cui la strumentazione dovrà operare. Poi si deve pensare ad un modo per portare fin là tutti i reagenti chimici per poter eseguire le analisi senza che questi si rovinino». Poi ci sono i problemi di contaminazione: bisogna stare attenti a non portare alcun materiale indesiderato dalla Terra «perché potrebbe avere conseguenze disastrose su questa missione e quelle future. I nostri sistemi sono estremamente sensibili e la più piccola traccia di materiale organico importato erroneamente ci potrebbe far trarre conclusioni errate».
Esiste perfino un protocollo di protezione planetaria da rispettare per assicurarsi che tutto quel che viene mandato non contamini altri corpi celesti. «Ma vale anche il contrario: nella missione Mars2020, ad esempio, si prepareranno dei campioni da riportare sulla Terra, ma non sappiamo cosa c’è dentro e bisogna maneggiarli con cautela, potrebbe essere pericoloso».
Le prossime missioni saranno su Marte e, forse, su Europa. Ma non si cerca sulla nostra Luna. «Sì,perché manca l’ingrediente principale, l’acqua liquida che è presente solo sotto forma di ghiaccio, quindi le reazioni chimiche necessarie non possono avvenire. Poi manca l’energia, ovvero la scintilla. Sulla superficie le radiazioni solari sono così forti che ucciderebbero qualsiasi organismo, mentre all’interno non c’è un nucleo che fornisca calore come succede sulla Terra».
La sfida della diversità
Non è detto che la vita su altri corpi celesti sia come la conosciamo qui sulla Terra. Potrebbe essere radicalmente diversa. «Vero, spiega Kehl, le molecole fondamentali per la vita su altri corpi celesti potrebbero essere diverse dalle nostre, ma dobbiamo fare un passo alla volta partendo da quel che è più semplice. Cercare qualcosa di simile a quel che c’è sulla Terra è la mossa meno azzardata: un processo accaduto una volta qui sulla Terra, è probabile che sia accaduto anche altrove. Inoltre con i nostri strumenti possiamo rilevare vita come la conosciamo, ma anche come non la conosciamo».
E se davvero si trovassero forme di vita? «Dovremmo stabilire quanto sono diverse da noi per avere indicazioni per capire da dove ci siamo originati. Da un punto di vista filosofico invece è ancora più difficile dirlo, ma è una delle domande più antiche del mondo e una risposta farebbe crescere l’intera specie umana, mettendoci in una prospettiva inedita».