Il caso

Ammazzare le balene non ha più senso

L’esempio dell’Islanda, che cesserà la caccia ai cetacei nel 2024, segna un passo in avanti – Ma migliaia di balene e delfini continuano a morire sulla scia di tradizioni anacronistiche – Per Natalie Maspoli Taylor di Sea Shepherd Svizzera non si tratta solo di proteggere una specie in via d’estinzione, ma di preservare anche un equilibrio necessario alla vita sul nostro Pianeta
Un’immagine d’archivio del 2014 mostra alcuni balenieri islandesi «al lavoro» su una balena appena uccisa. © EPA/GREENPEACE
Irene Solari
08.02.2022 06:00

Restano solo tre Paesi al mondo che consentono la caccia alle balene nelle loro acque territoriali. Si tratta di Giappone, Norvegia e Islanda. Qualche giorno fa, però, proprio l’Islanda ha deciso di voler abbandonare la pratica venatoria nel 2024. A partire da quell’anno non saranno più rinnovate le licenze di caccia alla balena. A comunicarlo è stata Svandís Svavarsdóttir, ministro islandese dell’alimentazione, dell’agricoltura e della pesca. La ragione dietro a questo passo sarebbe però meno nobile di quanto possa apparire al primo sguardo: si tratta di soldi. La domanda di smercio per la carne di balena starebbe registrando un forte calo negli ultimi anni – complice anche la pandemia – e ci non sarebbe più un interesse economico nel proseguire con questo tipo di produzione. Ma, analizzando il fenomeno, si capisce che dietro a queste pratiche anacronistiche esiste una questione che è più di mentalità che di interessi economici.

Abbiamo fatto il punto della situazione con Natalie Maspoli Taylor di Sea Shepherd, associazione attiva da anni nella protezione di specie marine minacciate dalla mano dell’uomo.

© Shutterstock
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«Una caccia illegale»
«Questa è una notizia fantastica» dice Maspoli Taylor, «accolta felicemente anche da Sea Shepherd che da tempo lotta contro la mattanza illegale dei cetacei». Stiamo parlando di animali in via d’estinzione, che meriterebbero una protezione accresciuta. Com’è possibile che avvengano ancora queste mattanze e, di nuovo, che l’Islanda si chiami fuori dalla caccia solo nel 2024 e non prima? «È vero» prosegue la nostra interlocutrice, «soprattutto perché esiste un’organizzazione mondiale per la salvaguardia delle balene che nel 1986 ha vietato le uccisioni di cetacei a scopo commerciale. Malgrado ciò, Islanda e Norvegia finora non hanno preso in considerazione questo divieto e si allocano delle quote di quanti esemplari possano uccidere. Anzi, peggio, i rispettivi governi sovvenzionano la caccia. Fino al 2018, sono state uccise 1.700 balene. Sebbene ci sia un divieto internazionale nessuno agisce, è pazzesco pensare che abbiamo un’organizzazione che si occupa della salvaguardia delle balene ma non si faccia nulla contro questi Paesi. Nessuno si oppone a questa mattanza».

A volte la sola cosa che possiamo fare è documentare l’uccisione delle balene, tra cui anche delle femmine gravide, perché non abbiamo il permesso di intervenire

«Si può solamente documentare il massacro»
Molto spesso l’associazione Sea Shepherd non può nemmeno intervenire per fermare queste mattanze. O meglio, dipende sotto quale giurisdizione si svolge la battuta di caccia. Ad esempio, in Antartide Sea Shepherd è riuscita a intervenire: «Ci mettevamo con le nostre navi tra le balene e le baleniere». Una cosa che però non è possibile fare nelle acque territoriali islandesi o norvegesi, come ha spiegato Maspoli Taylor: «La mattanza avviene nelle loro acque territoriali, quindi c’è un divieto di intervenire». La sola “arma” a disposizione dell’associazione è quella di filmare i fatti. «Nel 2018 – e questa era l’ultima volta che effettivamente in Islanda hanno ucciso delle balene – abbiamo documentato la mattanza e, grazie anche alla nostra azione, abbiamo mostrato quante delle balene uccise erano gravide». Un fatto che rende il gesto ancora più grave, spiega Maspoli Taylor: «Lo stesso succedeva con i giapponesi quando andavano in Antartide a uccidere le balene. La maggior parte erano femmine gravide e quindi si va ad uccidere anche la prossima generazione».

Se le balene spariscono, moriranno gli Oceani e moriremo anche noi, invece la loro carne finisce nelle scatolette di cibo per animali

«Non si uccide più per mangiare»
L’uccisione delle balene è quindi, di per sé, un atto reso illegale dal 1986, «una pratica vietata dalla legge». E soprattutto, ribadisce la nostra interlocutrice, non è una caccia che va a scopo benefico dei cittadini. Perché, se infatti un tempo le balene erano cacciate per la loro carne, ad oggi nemmeno gli stessi islandesi sembrano apprezzare più di tanto questi piatti. «Loro stessi non mangiano più la carne di balena o ne consumano pochissima, non piace più». Quindi, sottolinea Maspoli Taylor, non bisogna pensare che dietro a questa pratica ci siano nobili intenti: «L’uccisione delle balene non è né sostenibile, né legale».

Ci troviamo davanti a un aspetto importante, dell’usanza e della tradizione, ma – occorre ricordare – in passato la caccia ai cetacei era diversa: le persone dipendevano dai prodotti derivati, come la carne o il grasso di balena, per la propria sussistenza. «Assolutamente» ci conferma Maspoli Taylor, «c’erano anche migliaia e migliaia di balene in più e, se si uccideva un esemplare, veniva usata tutta la carcassa». Una situazione ben diversa quella che si presenta attualmente agli occhi degli attivisti: «Oggi questa carne in parte non è nemmeno più commestibile. Purtroppo si sa che questo prodotto finisce in scatolette di cibo per animali, o viene buttato via. Stiamo parlando di animali che sono essenziali per noi umani e per la sopravvivenza su questo Pianeta, perché se le balene spariscono, moriranno gli Oceani e di conseguenza moriremo anche noi. È un fatto, non sono cose inventate: gli Oceani per avere un ecosistema sano hanno bisogno delle balene, come hanno bisogno degli squali come di tutti gli altri animali. Noi stiamo sterminando le creature più importanti per la nostra sopravvivenza». E il motivo di tale brutalità, una volta esclusa la sussistenza, si fatica a trovare. «L’Islanda cerca ogni anno il mercato migliore dove vendere il prodotto. La maggior parte veniva venduta su quello giapponese – un altro Paese che caccia ogni anno moltissimi cetacei – ma poi si è scoperto che la carne era tossica, quindi non la si poteva mangiare e veniva buttata via. Non si capisce perché lo facciano. Sicuramente in parte per guadagnare soldi, ma non è solo quello. In parte la ragione risiede nel fatto che la caccia sia vista come una tradizione. Così è anche per i giapponesi, che uccidono migliaia di balene lungo le loro coste, malgrado in molti non mangino più la carne di balena».

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Il controsenso di una tradizione
Non c’è più bisogno di cacciare le balene eppure si continua. E neanche tanto per delle ragioni pecuniarie, come riporta la direttrice di Sea Shepherd: «Si tratta di Paesi che a livello economico stanno molto bene. La Norvegia è un Paese ricchissimo, non ha bisogno di guadagnare con questo business, ma malgrado ciò continua. Spero prima di tutto che il divieto di caccia in Islanda entri presto in vigore e che anche la Norvegia decida di non uccidere più balene». Maspoli Taylor cita, oltre al Giappone, un altro esempio di Paese che segue tradizioni arcaiche – e ormai anacronistiche – per “motivare” la caccia: «Pensiamo anche alle Isole Faroe, dove vengono uccisi migliaia di delfini per una tradizione molto crudele. Sembra quasi che si approfitti della bontà di questi animali, sono creature troppo affabili, che non si ribellano anche se viene fatto loro del male. Persino nel momento in cui vengono uccisi non riescono a fare nulla, vanno incontro a quello che è il loro destino». Un’assurdità, spiega la nostra interlocutrice, tanto più se si pensa che esisterebbe un modo pacifico di convivere con queste creature e, volendo, di trarne anche una fonte di guadagno. Semplicemente aprendo a visite turistiche di aree marine protette, dove poter osservare questi esemplari nel loro ambiente naturale. «L’Islanda guadagnava nel 2017 ben 2,2 milioni con il Whale Watching, sarebbe un guadagno superiore a quello che si ottiene con lo smercio della carne di balena» racconta Maspoli Taylor. Una soluzione senza spargimenti di sangue evidentemente esiste. Ma manca la volontà di attuarla. «Purtroppo a certe persone semplicemente non interessa fare qualcosa per cambiare. La proposta dell’area turistica protetta per permettere alle persone di vedere gli animali nel loro habitat era stata fatta anche al Giappone all’inizio degli anni Duemila, in una località nota per le uccisioni di delfini e dotata di un paesaggio mistico e bellissimo. Era stata anche messa sul tavolo una somma di denaro veramente interessante. Ma i giapponesi non hanno scelto questa opzione, assolutamente no. Anche perché si trattava di ex balenieri, persone che non riescono a concepire di non cacciare più gli animali. Volevano continuare». E Maspoli Taylor prosegue amaramente il racconto con un altro esempio di fallimento: «La stessa cosa è successa alle Isole Faroe. Più volte è stato detto: “Perché invece di continuare a uccidere i delfini non fate come l’Islanda e promuovete il turismo dei cetacei?”. Non interessa, non interessa assolutamente». La speranza sta tutta nelle nuove generazioni, molto più sensibili all’argomento e al futuro del Pianeta.

Ogni respiro che facciamo lo prendiamo dagli Oceani, anche qui in Svizzera

«Siamo fortunati, ma occorre riflettere sulle nostre scelte»
Secondo Maspoli Taylor è importante tenere alta l’attenzione anche qui in Svizzera, nonostante non siamo direttamente toccati da questi problemi “marini”. «Ogni respiro che facciamo, lo prendiamo dagli Oceani. Per questo pure per noi è importante questo discorso, anche se siamo circondati dalle montagne». Le nostre scelte contano, chiarisce la direttrice di Sea Shepherd, e non dobbiamo mai perdere d’occhio lo stato dell’ecosistema. «In Svizzera siamo veramente fortunati, a maggior ragione dobbiamo fare scelte responsabili ed essere più coscienti di quello che sta succedendo attorno a noi. A volte ce ne dimentichiamo perché qui sembra andare tutto bene. Almeno fino a quando le cose non cominciano a “stortarsi” un po’ anche alle nostre latitudini. Questo inverno, ad esempio, è caldissimo e non c’è la neve. Dovremmo un po’ preoccuparci di questa cosa, non è un bel segno. Dovremmo fare più attenzione anche noi».

Senza crudeltà: il Whale Watching, Husavik, Islanda. © Shuttertock
Senza crudeltà: il Whale Watching, Husavik, Islanda. © Shuttertock