L'intervista

«Antisemitismo e antisionismo, due concetti da tenere separati»

Valentina Pisanty, ordinaria di Semiotica all'Università di Bergamo, riflette sulla trasformazione delle parole alla luce anche di quanto accade nella Striscia di Gaza
La guerra nella Striscia di Gaza ha prodotto una discussione aspra anche sul concetto di antisemitismo. ©ABIR SULTAN
Dario Campione
06.06.2025 06:00

Valentina Pisanty, ordinaria di Semiotica all’Università di Bergamo, da anni studia il rapporto tra linguaggio, memoria ed ebraismo. L’ultimo suo lavoro, pubblicato all’inizio di quest’anno da Bompiani, si intitola Antisemita. Una parola in ostaggio. Il Corriere del Ticino le ha chiesto di riflettere sul significato e sulla trasformazione di questa parola alla luce anche di quanto accade a Gaza.

Professoressa Pisanty, partiamo dalla «memoria», tema cui lei ha dedicato almeno due importanti studi (Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, Bruno Mondadori 2012 e I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani 2020). Perché, a suo parere, i fenomeni di antisemitismo sono tuttora così numerosi, e sembrano crescere invece di diminuire?
«La conclusione a cui sono giunta nei miei studi è che decenni di politiche retoriche della memoria non hanno prodotto i risultati attesi, per varie e complesse ragioni. È vero: fenomeni di razzismo e antisemitismo che strumenti pedagogici quali, ad esempio, la Giornata della Memoria avrebbero dovuto combattere sono invece cresciuti vertiginosamente. Bisogna quindi prendere atto del fallimento di queste politiche della memoria, e chiedersi pure il perché di questo fallimento. Personalmente, penso che molto sia dipeso dalla sacralizzazione di una memoria che si è prima chiusa in sé stessa e poi è stata presa in gestione da coloro i quali si proclamano guardiani della memoria: lo Stato d’Israele, ma non solo. Coloro, cioè, che ritengono da una parte di dover stabilire quali siano le pratiche commemorative adeguate e consentite, escludendo dai processi decisionali relativi agli usi possibili della memoria chi non entra nel cerchio di fuoco di questa stessa memoria sacralizzata; e dall’altra, facendo a loro volta un uso strumentale della memoria e adeguandola all’agenda di volta in volta perseguita».

C’è stato, allora, un abuso della memoria?
«Sì, ma era inevitabile. La memoria, di per sé, è fatta per essere usata, essendo per definizione qualcosa di soggettivo, unilaterale e privato. È sempre funzionale agli interessi e alle sensibilità di chi se ne sente titolare. La mia ipotesi è che sia stata caricata troppa aspettativa su ciò che la memoria poteva fare: per esempio, creare un’identità occidentale e democratica, liberale attorno alla generica promessa del «Mai più». Quindi, il primo passaggio necessario è prendere atto del fallimento del modo di far memoria che ha contraddistinto gli ultimi trent’anni, direi sempre di più a mano a mano che ci si avvicina al presente. Inoltre, occorre prendere anche atto del fatto che la memoria mette sempre in rapporto il passato con il presente. Cosicché, è inutile adesso dire che nel Giorno della Memoria bisogna parlare soltanto di ciò che accadde 80 anni fa, non fare riferimenti al presente, proprio perché questa è, invece, la funzione della memoria: creare ponti e collegamenti tra il passato e il presente. La comunità commemorante attuale guarda gli eventi del passato e li interpreta in base alle preoccupazioni del suo presente. Ed è normale che sia così. Il problema è: chi ha diritto di gettare il proprio sguardo sul passato e raccontarlo secondo gli interessi del momento? E qui torniamo alla questione dei guardiani della memoria. Perché, se si decide che una sola categoria di persone ha tale diritto, gli altri non possono che seguirne i rituali e santificare la memoria sulla base di criteri che non possono decidere, sui quali non possono intervenire. E questo, naturalmente, crea un bel paradosso tra l’universalismo e il particolarismo».

Nel momento in cui si fanno collassare in un'unica categoria, antisemitismo e antisionismo si fondono

Non si può negare che il dibattito attuale sia condizionato da quanto accade in Medio Oriente e nella Striscia di Gaza. Si confonde l’antisemitismo con la critica al Governo di Israele. Una questione alla quale lei ha dedicato il suo ultimo libro, un testo sulla manipolazione delle parole e di una in particolare: «antisemita», appunto.
«Il mio studio nasce quasi da un moto di esasperazione accumulato non soltanto negli ultimi tempi, da quando è esploso il conflitto a Gaza, ma relativo a un fenomeno in corso già prima e che si è solo intensificato di recente. L’esasperazione è dovuta all’uso strumentale, politico, di un termine chiave nella lotta contro il razzismo, dato che l’antisemitismo è una fattispecie del razzismo. È abbastanza evidente come questa parola sia stata prelevata dal lessico e il suo significato volontariamente modificato per venire incontro all’agenda politica di una delle parti in causa. Io mi occupo di linguaggio, sono una semiologa prima che una storica, e sono particolarmente sensibile all’uso delle parole, le quali non sono strumenti neutri di descrizione del reale ma strumenti di classificazione della realtà. Le parole orientano pesantemente la percezione del mondo da parte di chi le usa».

Ma come si è giunti a sovrapporre l’antisemitismo con la critica al Governo di Israele?
«Lo Stato di Israele, in qualche modo, ha favorito, incoraggiato e promosso una fusione del concetto di ebraismo con quello di Israele, come se si trattasse di un’unica entità. Il che, peraltro, è curioso, perché va contro uno dei punti delle definizioni oggi correnti, secondo cui sarebbe antisemita supporre che ebraismo e appartenenza a Israele siano la stessa cosa. È sbagliato, dice la definizione, pensare che chiunque sia ebreo, automaticamente debba identificarsi con Israele. Ma è esattamente questo il collasso categoriale promosso dai Governi israeliani negli ultimi anni»

Secondo lei, perché questo è accaduto?
«Da tempo i Governi conservatori - o etnonazionalisti - israeliani si affannano a convincere gli ebrei della diaspora a ritrasferire la propria identità ebraica e a riportarla nell’alveo del sionismo. E si comprende bene quale sia l’interesse in tutto ciò: premendo molto sul pulsante della paura di un antisemitismo in crescita, affermano l’idea che soltanto Israele può difendere gli ebrei dai loro eterni nemici. Più della metà degli ebrei al mondo non vive in Israele: l’obiettivo è riportarli tutti a identificarsi non soltanto in Israele in quanto tale, a prescindere dai Governi che lo dirigono, ma in questo Israele, inteso nella maniera in cui lo intendono i partiti dell’estrema destra israeliana».

Questa discussione sull’antisemitismo ha portato quasi a un blocco semantico, tanto che ci si chiede se sia ancora possibile criticare Israele. Lei nel libro elenca alcuni ebrei molto conosciuti - una su tutti, Hannah Arendt - e accusati di essere contro sé stessi, quando in realtà essi sono, o sono stati, contro una politica e un orientamento precisi che nulla hanno a che fare con la questione religiosa.
«A rigor di logica e di senso comune, è così, e l’accusa di antisemitismo è particolarmente grottesca in casi simili. Poi, naturalmente, per tornare al ragionamento precedente, nel momento in cui si fanno collassare, in un’unica, le categorie di ebreo e Israele, antisemitismo e antisionismo si fondono. Un grave errore, perché l’antisemitismo è una forma di razzismo e nulla ha a che fare con l’antisionismo, che è una posizione politica, legittima anche se non necessariamente da condividere, come accade sempre con le posizioni politiche. Certo può capitare che le due retoriche si accavallino, e che qualcuno rispolveri stereotipi antisemiti in funzione antiisraeliana o, viceversa, mascheri il proprio antisemitismo sotto l’apparenza dell’antisionismo. Ma non è la norma. E tuttavia, questa convergenza di significato comporta che qualsiasi critica a Israele, specie se svolta con veemenza, è automaticamente tacciata di antisemitismo e pertanto delegittimata a priori, esclusa dal novero delle posizioni con le quali è possibile confrontarsi. Questo ha un’evidente funzione di limitare lo spazio del dibattito attorno a temi controversi, come ad esempio il conflitto in Medio Oriente, e a spostare tutto il peso della giusta condanna che grava sul termine antisemitismo sulle critiche a Israele, demonizzando sostanzialmente le stesse critiche e demonizzando, soprattutto, chi promuove quelle critiche».

Si arriva al paradosso che non si è più in grado di comprendere il vero antisemitismo.
«È così. Ciascuna parola ha un suo nucleo semantico, ha cioè proprietà che permettono di riconoscerne il significato. La risemantizzazione della parola antisemita ha spostato il peso del suo significato dal nucleo originario verso tratti legati alla critica al Governo di Israele, fino al punto che questa definizione alternativa, chiamata nuovo antisemitismo, ha finito per soppiantare la vecchia. Così, oggi, non siamo più in grado di definire in modo corretto l’antisemitismo, qualcosa che tuttora esiste ma di cui non possiamo nemmeno misurare il tasso di crescita in quanto manca la parola per poter capirne l’evoluzione».