Banche, stress test superati, ma il nodo resta la liquidità

Esame superato per le 32 grandi banche americane sottoposte agli «stress test» condotti negli scorsi giorni dalla Federal Reserve. Dai controlli sullo stato di salute di questi istituti - tra cui quelli di rilevanza sistemica come JPMorgan, Citigroup, Wells Fargo, ma anche l’unità statunitense di UBS - emerge che in uno scenario di grave recessione economica questi istituti possono sopportare perdite per 685 miliardi di dollari. I risultati degli stress test sono seguiti con particolare attenzione dai mercati, seppure in modo differenziato. Andiamo a vedere come.
Svizzera poco «trasparente»
Gli stress test bancari sono stati introdotti dalla Fed - e anche dalla Banca centrale europea (BCE) - all’indomani della crisi finanziaria globale del 2007-2009. Simili esami vengono effettuati anche in Svizzera, ma da parte dell’Autorità di vigilanza sui mercati finanziari (Finma). A differenza di Fed e BCE, tuttavia, la Finma non pubblica i risultati dei suoi esami. «Negli USA gli stress test sono molto importanti in quanto i risultati determinano la quantità di capitale di cui le banche hanno bisogno per essere considerate “sane” e, conseguentemente, quanto potranno restituire agli azionisti tramite riacquisti di azioni e dividendi», spiega al CdT Andreas Venditti, analista di Vontobel e specialista del settore bancario. «In Svizzera - prosegue - il peso di questi esami è differente, ma il Consiglio federale, fra le 22 misure proposte ad aprile nel suo rapporto sulla stabilità del sistema bancario, chiede anche di pubblicare molti più dati e di essere più trasparenti sulla solidità delle banche esaminate. Con la pubblicazione di queste informazioni gli stress test probabilmente assumeranno maggiore importanza anche in Svizzera». Ricordiamo che gli istituti finanziari considerati di rilevanza sistemica (SIB), quindi soggetti agli stress test, sono UBS, la Banca cantonale di Zurigo (ZKB), il gruppo Raiffeisen e PostFinance.
Ci vuole più capitale...
Dopo la débâcle di Credit Suisse (CS), in Svizzera si è acceso il dibattito sul «too big to fail», focalizzandosi in particolare su UBS il cui bilancio, a seguito dell’integrazione di CS, si è «gonfiato» raggiungendo la cifra esorbitante di circa 1.500 miliardi di franchi. Praticamente il doppio del PIL della Svizzera, aveva rimarcato a fine aprile la responsabile del Dipartimento federale delle finanze (DFF), Karin Keller-Sutter, che ha quindi avanzato la richiesta di aumentare il capitale proprio di UBS e delle sue filiali all’estero.
Secondo alcune stime «plausibili», il capitale aggiuntivo si situerebbe fra i 15 e i 25 miliardi di franchi. Ma a UBS non va giù l’idea di aumentare il suo «patrimonio di vigilanza»: già a inizio febbraio, parlando dopo la comunicazione dei risultati annuali, il CEO Sergio Ermotti aveva dichiarato - anticipando quindi gli auspici del DFF - che le autorità non dovrebbero imporre alla banca di detenere più capitale. Per il 64.enne luganese elevati livelli di capitale proprio «costano», anche in termini di competitività. Detto altrimenti, ulteriori aumenti di capitale impatterebbero sulla capacità della banca di erogare determinati servizi, per esempio quelli creditizi. «UBS potrebbe dover aumentare i prezzi dei suoi prodotti ipotecari e a perderci sarebbero i clienti, a vantaggio di altri istituti come le banche cantonali», afferma Venditti.
Su questo punto Vontobel indica in uno studio appena pubblicato che a fine 2023 la quota del mercato ipotecario in Svizzera di UBS è scesa al 25%, mentre quella delle banche cantonali e di Raiffeisen è salita al 38% e 18% rispettivamente. «Prevediamo che entrambi gli indicatori subiranno una lieve flessione - commenta Venditti, autore dello studio - in quanto la strategia di UBS prevede una crescita soprattutto negli Stati Uniti e in Asia, mentre il totale di bilancio diminuirà a causa dei programmi di ristrutturazione e ottimizzazione».
... o più liquidità?
«Credit Suisse soddisfa le esigenze in materia di capitale e liquidità poste alle banche di rilevanza sistemica». Così scriveva la Finma in un comunicato il 15 marzo 2023. La fine di CS, sancita pochi giorni dopo, è dovuta quindi a diversi fattori, che oltretutto venivano da lontano. «Essenzialmente, dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 CS non è stata capace di costruire un modello di redditività sostenibile nel tempo», afferma Venditti.
Eppure, il crollo di CS viene per lo più attribuito a problemi di liquidità. Va però detto che i requisiti «standard», ovvero quelli relativi all’indicatore della liquidità a breve termine (il cosiddetto liquidity coverage ratio, LCR), erano generalmente soddisfatti. Tuttavia, i deflussi sia nella mini-crisi di ottobre 2022, sia nella drammatica settimana di metà marzo 2023 sono stati superiori a quanto previsto dallo scenario di stress considerato dall’LCR (il requisito minimo stabilito dalla Banca dei regolamenti internazionali è al 100%). Infatti, a marzo 2023 in soli 7 giorni i clienti di CS hanno ritirato il 25% dei depositi, la stessa quantità che il requisito LCR prende in analisi, ma su un orizzonte temporale di 30 giorni.
«UBS oggi è molto liquida dal profilo dell’LCR, che a fine 2023 era al 216%», conclude Andreas Venditti. A titolo di confronto, un istituto molto più grande di UBS come la statunitense JPMorgan (che, tra l’altro, è il maggiore istituto bancario privato al mondo, con un totale di bilancio di quasi 4 mila miliardi di dollari) ha un LCR di «appena» 113%.