L’anniversario

Bologna non dimentica la strage degli innocenti

Quarant’anni fa una bomba provocò la morte di 85 persone e fece oltre 200 feriti alla stazione ferroviaria
La devastazione lasciata dalla bomba. ©Keystone
Giona Carcano
02.08.2020 07:48

«La strage è stata organizzata dai vertici della Loggia massonica P2, protetta dai vertici dei servizi segreti italiani, eseguita da terroristi fascisti». È la dicitura che si può leggere in calce sul manifesto dell’Associazione tra i famigliari delle vittime della strage alla stazione di Bologna. Sopra, la fotografia della lapide. Ottantacinque nomi e cognomi. E l’età di ciascuna delle vittime del più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo Dopoguerra. Quella lapide, quel monito, quel ricordo, tiene viva la memoria. Avverte i passanti che transitano nella stazione di Bologna, avverte tutti noi: gesti, occultamenti, terrore, bombe, si possono replicare ancora e ancora. Non appartengono a un passato scomparso. Sono solamente lontani nel tempo, se vogliamo. Lo ha ricordato Sergio Mattarella ieri, in visita alla città proprio nei giorni del 40. anniversario: «Il ricordo serve per essere vigili, in modo da evitare che si ripetano le avvisaglie della strategia del terrore».

Il collegamento mancante

Il 2 agosto 1980 una bomba (alcuni ipotizzano fossero due) di fabbricazione militare – composta da 23 chili di esplosivo, una miscela di 5 chili di tritolo e T4 – e nascosta dentro una valigia, esplose su un tavolino nella sala d’aspetto della stazione di Bologna. Una strage che sconvolse l’Italia, esattamente come avvenne poche settimane prima con Ustica. Ma come spesso è accaduto durante gli anni di piombo, quel vile atto non ha avuto un mandante. Ha avuto degli esecutori, cioè i NAR (i Nuclei Armati Rivoluzionari, un’organizzazione terroristica di ispirazione neofascista) già condannati: Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, i primi tre in via definitiva e l’ultimo in primo grado, dopo la sentenza all’ergastolo di gennaio. Mancava, appunto, il collegamento fra la mano e il cervello, fra parola e pensiero. Il lato oscuro della strage, sì. Ma proprio pochi giorni fa, la svolta. Dopo quattro decenni di occultamenti, i nomi sono venuti a galla, e sono quattro: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato, Mario Tedeschi. Tutti e quattro sono morti e dunque non potrà mai esserci un processo, né una sentenza di condanna o di assoluzione.

Una veduta dall’alto della stazione ferroviaria di Bologna. ©Keystone
Una veduta dall’alto della stazione ferroviaria di Bologna. ©Keystone

La scia dei soldi

Come sempre in questi casi, bisogna seguire la scia dei soldi. Ed è quello che ha fatto la Procura di Bologna. Quei soldi (si parla di un milione di dollari, una fetta di una torta di cinque o forse più milioni) arrivavano dai conti svizzeri di Licio Gelli e a più riprese sarebbero transitati dal febbraio 1979 e fino al periodo successivo alla strage anche agli organizzatori e ai depistatori. Gelli, già condannato per depistaggio nei processi sulla strage, avrebbe agito con l’imprenditore e banchiere legato alla P2 Umberto Ortolani, suo braccio destro, con l’ex prefetto ed ex capo dell’ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato e con il giornalista iscritto alla Loggia ed ex senatore dell’MSI (Movimento sociale italiano), Mario Tedeschi. I primi due sono indicati dalla Procura come mandanti-finanziatori, D’Amato mandante-organizzatore, Tedeschi organizzatore. È quindi venuta a galla, luminosa, la correlazione fra il «Venerabile» della Loggia P2 e gli apparati deviati dello Stato.

La volontà politica

«Molti punti oscuri si sono finalmente chiariti dopo la conclusione di queste ultime indagini», commenta Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i famigliari delle vittime della strage di Bologna. «Ciò che permette di fare un salto di qualità importante nella ricerca della verità. Sono delle rivelazioni fondamentali, sì». Adesso tocca alla politica andare avanti. Assumersi cioè responsabilità chiare. «La volontà politica, nell’ambito di questo periodo buio italiano, la si vede non in occasione degli anniversari, bensì durante l’anno», prosegue ancora Bolognesi. «Il comportamento dei vari politici su questo fronte, lo capiremo solo più in là. Le promesse dei politici spesso sono promesse da marinaio. Qui stiamo parlando di P2, di intrallazzi, di soldoni che sono circolati. Pertanto, ripeto: noi come Associazione rimaniamo alla finestra, poi faremo le nostre valutazioni alla politica alla fine di tutti i processi». Il senso, infine, di tutto questo. Della strage, ma anche della lunghissima attesa della verità. «È il frutto della strategia della tensione, che parte dalla fine degli anni Sessanta ma che in pratica non si è mai fermata», chiosa il nostro interlocutore. «Bologna è parte di quella strategia, e dalle ultime indagini lo si evince: quegli atti non erano atti singoli, isolati. Avevano tutti un collegamento, ed è un fatto di una rilevanza eccezionale».

La testimonianta di allora: "Mi misi a piangere davanti al corpo straziato di una ragazza"

Il 2 agosto 1980, a bordo dell’«Adria Express» Ancona-Basilea, c’era anche Franco Mangili, un tipografo ticinese. Il convoglio, da poco entrato alla stazione di Bologna e in ritardo di un’ora sulla tabella di marcia, venne in parte investito dall’esplosione.

Un vivido racconto

Il Corriere del Ticino, nella sua edizione del 4 agosto 1980, raccolse la testimonianza di Mangili, in viaggio assieme alla moglie e al figlio. Vi proponiamo dunque alcuni passaggi di quella toccante intervista. «Il treno è entrato alla stazione di Bologna alle 10.25» racconta. «Appena si è arrestato mi sono affacciato al finestrino per acquistare un panino. In quell’attimo uno scoppio assordante mi ha fatto sussultare. È un bomba, ho gridato ai miei compagni di viaggio, mentre una densa nube nera si levava verso il cielo». Il panico comincia a diffondersi, incontrollato. Nell’aria, odore di zolfo. Pungente. «Sono sceso dalla carrozza per dirigermi verso il luogo dell’esplosione» prosegue il tipografo di Massagno. «Quanto mi si è presentato davanti agli occhi è indescrivibile. Una montagna di macerie. Una parte della tettoia della stazione è crollata sugli ultimi due vagoni del treno, dove fra i passeggeri c’erano senza dubbio anche alcuni cittadini svizzeri. Il suolo è cosparso di schegge di vetro, molte le persone insanguinate. Arrivano i primi soccorsi, si praticano medicazioni ai feriti meno gravi. Altri feriti vengono portati via da autoambulanze che fanno continuamente la spola tra la stazione e gli ospedali cittadini». Successivamente, Mangili prende coraggio. E si avvicina maggiormente al luogo dello scoppio. «È una visione terrificante» dice. «Non so come abbia fatto a resistere. Appena il polverone si è dissolto ho visto gente con gli abiti a brandelli e coperta di sangue. Molti corpi erano stati scaraventati sotto il treno in sosta. Da ogni parte si levavano urla e gemiti».

La ragazza

Il ticinese, nell’inferno di quei momenti, cerca una cabina telefonica per chiamare a casa. Vuole tranquillizzare i parenti. Si dirige fuori dalla stazione, sul piazzale ovest. Un agente in borghese, sconvolto, gli regala i gettoni. Mangili torna quindi verso il treno. «Ho visto un fattorino steso a terra, gridava ‘‘fatemi morire’’. Aveva le gambe distrutte. Poi una ragazza, orribilmente straziata. Lì non ho retto più, mi sono messo a piangere».

«Mi vergogno»

Franco Mangili lascia l’epicentro del disastro per tornare dalla sua famiglia, ancora sul treno. Un uomo, un toscano, leggermente ferito a una mano, gli racconta di essere stato sorpreso dallo scoppio della bomba all’uscita della sala d’aspetto della stazione. Saputa la provenienza del ticinese, dice: «Mi vergogno di essere italiano». Altri lì attorno, attoniti, si pongono la domanda che ancora oggi risuona nelle anime dei sopravvissuti: «Perché? È mai possibile? Che cosa vogliono?». Poi Mangili conclude: «Non ho più avuto il coraggio di avvicinarmi al luogo dell’esplosione. Faceva un caldo soffocate, i bambini erano terrorizzati, sfiniti».